Trasparenza salariale e certificazione: possono essere la soluzione migliore per ridurre il gender gap?
Quest’estate l’Unione Europea ha detto addio al segreto sugli stipendi: secondo una direttiva europea approvata dal Parlamento, le aziende saranno obbligate a comunicare, negli annunci di lavoro o nel primo colloquio, i dati economici per la posizione offerta, garantendo così una trasparenza finalizzata a ridurre il gender pay gap. Entro i prossimi tre anni, le aziende con più di 50 dipendenti dovranno impegnarsi quindi a correggere le discriminazioni salariali che non trovano alcuna giustificazione, eliminando tra le altre cose il segreto retributivo nelle fasi di primo approccio e assunzione.
Da sempre le donne conducono questa battaglia per avere gli stessi diritti degli uomini e nel tempo le misure atte a incidere sul problema sono state quasi marginali: si stima infatti che in Europa le donne guadagnino in media il 12,7% all’ora in meno rispetto agli uomini, valore che si attesta intorno al 5% in Italia. I motivi attribuibili a questa discriminazione salariale sono disparati, dal livello di istruzione, all’esperienza lavorativa, fino ad arrivare ai ruoli occupazionali e manageriali diversi.
La situazione in Italia e il certificato della parità di genere
In Italia nel 2022 è stata introdotta una interessante novità che sta prendendo piede soprattutto in questi ultimi mesi: si tratta della certificazione della parità di genere che ha come finalità quella di favorire la parità e l’empowerment femminile a livello aziendale. Ogni azienda può richiedere e conseguire tale certificazione in base all’equilibrio tra una serie di parametri KPI. Luca Furfaro, specializzato nelle politiche del lavoro e del welfare, titolare dell’omonimo studio (www.studiofurfaro.it), e tecnico certificatore per la parità di genere, ha spiegato in tre punti in cosa consiste questa certificazione.
- Ogni azienda può richiedere la certificazione della parità di genere e verranno presi in considerazione per l’analisi diversi parametri, detti KPI, in relazione a sei aree di valutazione: partendo da come sono scritti gli annunci di lavoro affinché non siano discriminatori e dal processo di selezione, passando all’aspetto retributivo per genere e le politiche di welfare, in particolare quelle per la famiglia, e anche l’equa distribuzione tra i sessi nelle posizioni manageriali e direzionali. Nello specifico le aree di valutazioni sono: cultura e strategia, governance, processi Human Resources, equità remunerativa, opportunità di crescita e inclusione e infine, genitorialità e conciliazione vita-lavoro. A ogni parametro è associato un punteggio e la loro misurazione deve raggiungere un minimo complessivo del 60%.
- La certificazione ha validità triennale ed è soggetta a monitoraggio annuale: ci possono essere però alcuni casi in cui l’azienda ottiene il certificato con alcune lacune; queste lacune aziendali rispetto alla parità di genere vengono analizzate e vengono forniti correttivi o suggerimenti per colmare tali mancanze. La valutazione rispetto al raggiungimento della certificazione viene effettuata in maniera differenziata a seconda anche della tipologia d’impresa (micro impresa, piccola media o grande impresa).
- Al fine di promuovere tale certificazione, il sistema prevede un meccanismo di premialità: tutte le aziende che richiedono e conseguono il certificato hanno un vantaggio contributivo del’1%, oltre alla possibilità di un miglior punteggio in bandi per finanziamenti ed appalti che stanno, nel tempo, premiando maggiormente anche gli standard di comportamento etici.
Oggi le aziende con più di 50 dipendenti hanno l’obbligo della presentazione di un rapporto sulle pari opportunità, ma tali dati non hanno però trovato riscontro se non a livello statistico.
“Le aziende dovrebbero avere più a cuore la loro responsabilità sociale d’impresa che include anche il gender pay gap: questa certificazione ha la finalità di evidenziare quelli che sono gli standard che tutte le aziende dovrebbero tenere.” sostiene Luca Furfaro, esperto di lavoro e titolare dello Studio Furfaro. “Il tema del gender pay gap risulta centrare anche per le politiche familiari di incremento della natalità che risultano oggi al centro della discussione politica. Anche il welfare aziendale potrebbe aiutare la causa per dare a tutti le medesime possibilità e capacità competitive: dovrebbe, infatti, in tal senso, lavorare per distribuire i carichi e le esigenze familiari tra i due genitori; inoltre, ci sarebbe bisogno anche di maggiore welfare, di carattere statale o territoriale, legato agli asili, strutture che possono dar modo così di occuparsi al contempo di famiglia e lavoro. Le aziende che fino ad ora hanno chiesto la certificazione appartengono a diversi ambiti lavorativi, ma si evidenziano sempre alcuni campi a prevalenza femminile o maschile, l’importante resta garantire un equilibrio in merito a opportunità e remunerazione: non si deve per forza raggiungere la stessa parità di presenza, ma sarebbe sempre arricchente avere delle differenze piuttosto che un pensiero uniforme, avere per esempio più visioni femminili nelle STEM potrebbe arricchire il settore.”
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