Qual è il rischio che l’inflazione rialzi la testa?
Vi ricordate la stagflazione? Per chi si fosse scordato il significato del termine, si riferisce a una situazione in cui un livello di inflazione elevato si accompagna a recessione o comunque attività economica debole. La stagflazione ha caratterizzato gli anni ’70 del secolo scorso, quando l’inflazione era relativamente sostenuta (tra il 1973 e il 1984 l’inflazione in Italia oscillò tra il 10 e il 20% all’anno) e sostenuta da aspettative che rimanesse tale, nonostante la disoccupazione elevata. È una situazione che potrebbe verificarsi di nuovo?
Rispetto agli anni 70, le banche centrali dei principali paesi avanzati sono diventate più indipendenti e con un chiaro mandato di controllo dell’inflazione (in Italia il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro avvenne nel 1981 e avviò un notevole processo di contenimento dell’inflazione nel corso degli anni ‘80). Fintanto che gli istituti centrali godono di buona credibilità, l’aspettativa più diffusa è che, se l’inflazione dovesse risalire, essi interverrebbero aggressivamente. Quindi l’inflazione non dovrebbe preoccuparci.
Tuttavia, nel corso della scorsa estate la Federal Reserve americana ha adottato un cambio di strategia che prevede che i tassi di interesse non vengano alzati anche quando l’inflazione supera la soglia del 2% e finché la disoccupazione non abbia raggiunto un valore valutato sufficientemente basso. Questo significa che la Fed potrebbe non rispondere subito ad un aumento dell’inflazione sopra il 2%.
Tradizionalmente nei modelli macroeconomici, l’inflazione raggiunge il livello obiettivo stabilito dalla banca centrale se quest’ultima risponde in modo aggressivo ad aumenti attesi dell’inflazione (il cosiddetto Taylor principle). La funzione di risposta della banca centrale è di solito rappresentata da una Taylor rule, dove il tasso di interesse scelto dipende dall’inflazione attesa e dall’output gap. Quando l’output gap è nullo, se la banca centrale aumenta il tasso di interesse nominale meno di quanto aumenti l’inflazione attesa, il tasso di interesse reale atteso scenderà, stimolando così la domanda e quindi facendo ulteriormente aumentare l’inflazione. Quando l’output gap è negativo, come in questa fase, la banca centrale può rispondere in modo meno che proporzionale e comunque raggiungere obiettivo di inflazione. Ma se reagisce in modo troppo debole l’equilibrio risulta indeterminato, cioè l’inflazione potrebbe crescere indefinitamente. In questa situazione le aspettative di inflazione potrebbero salire nell’immediato anche in presenza di un livello di disoccupazione ancora elevato.
Se guardiamo a cosa si aspettano oggi i mercati, possiamo dire che stanno assegnando una probabilità non nulla al fatto che l’inflazione possa salire sopra il 2%. Le aspettative di mercato mostrano che l’inflazione attesa è risalita dal minimo di questa primavera a oltre il 2% recentemente (figura sotto). Non solo. L’oro, tipico asset che protegge dall’inflazione, si è apprezzato molto negli ultimi mesi. Molti operatori pensano che Bitcoin sia un po’ come l’oro. Essendo la sua offerta limitata per ragioni tecniche e avendo la potenzialità di diventare una valuta di riserva internazionale sganciata da autorità sovranazionali, potrebbe anch’esso proteggere dall’inflazione. Insomma, i segnali di mercato indicano che la probabilità di un’inflazione superiore al 2% non è nulla.
- Fonte: Federal Reserve
Tuttavia, la situazione oggi è diversa da quella degli anni ‘70. Innanzitutto, le aspettative sono ancora nell’intorno del 2%, dunque vicine agli obiettivi delle banche centrali. In secondo luogo, l’aumento della domanda di oro e Bitcoin (al netto dei ribassi di questi ultimi giorni) riflette una protezione contro il rischio di inflazione, non l’aspettativa di un’inflazione elevata. Cioè gli agenti comprano protezione contro un rischio – inflazione elevata – che al momento non è nello scenario di base ma che ha una probabilità non nulla di verificarsi. Tuttavia, non si può escludere che le aspettative di inflazione possano salire oltre il 2% senza che la Fed intervenga, in tale modo riducendo i tassi di interesse reali attesi e sostenendo la domanda interna, quindi validando le attese di inflazione più elevata.
La sensazione è che ci stiamo incamminando su un terreno inesplorato, perché i mercati potrebbero voler testare la credibilità delle principali banche centrali, dopo che per vent’anni nessuno ne ha minimamente dubitato.