L’engagement delle risorse umane è questione di sensemaking
Si ritiene spesso a ragione che gli Stati Uniti siano una finestra per guardare al nostro futuro. Ciò che succede lì, accadrà poi anche da noi. La novità dell’ultimo periodo è che l’ondata delle ‘Grandi dimissioni’ sembra essersi arrestata. A ottobre del 2023 ha lasciato la propria occupazione una percentuale di lavoratori americani molto simile a quella che si era registrata nel 2019, vale a dire lo 0,1%. Il dato non è una sorpresa, almeno per gli osservatori più attenti. Anthony Klotz, il professore associato che ha coniato il termine a maggio 2021, già ad agosto aveva detto in un’intervista a Fast Company che il fenomeno si era in larga parte arrestato. I lavoratori sono quindi più soddisfatti delle loro posizioni? Non proprio. In un mercato del lavoro più incerto e con scenari in parte imprevedibili, molti sarebbero però meno inclini a gettarsi nell’ignoto senza un’ancora di salvataggio.
Le Grandi dimissioni potrebbero essere state un falso allarme, ma i motivi che hanno portato milioni di persone in tutto il mondo a licenziarsi non sono un “falso” problema. La mancanza di adeguati riconoscimenti, l’assenza di un obiettivo, l’erosione dei salari e la crescente difficoltà di conciliare lavoro e vita privata sono tuttora motivo di grande insoddisfazione soprattutto tra i millennial e la cosiddetta Generazione Z. Il problema di molte organizzazioni è che sono sempre più orientate alla profittabilità nel breve periodo, all’istantaneità dei risultati e hanno perso di vista un aspetto altrettanto importante: l’engagement dei dipendenti e collaboratori. I lavoratori non possono percepirsi solo come esecutori di compiti. Hanno bisogno di sentirsi parte di una comunità e di avere uno scopo in questo ruolo. Non a caso, è stato dimostrato che avere troppo poco lavoro da fare è causa di stress tanto quanto un’agenda troppo fitta.
L’engagement, ovvero l’intensità della connessione o partecipazione con un’organizzazione, è una luce che deve illuminare sempre, non un interruttore che va acceso o spento a piacimento. Questo si compone di:
- Vigore, un elevato livello di energia e capacità di recupero mentale durante il lavoro, volontà di sforzarsi nel proprio compito, e persistenza anche di fronte alle difficoltà.
- Dedizione, ovvero l’essere fortemente coinvolti nel proprio lavoro e sperimentare un senso di importanza, entusiasmo, ispirazione, orgoglio e sfida.
- Assorbimento, cioè essere completamente concentrati e piacevolmente assorti nello svolgimento di un lavoro, per cui il tempo passa in fretta e si ha difficoltà a distaccarsi dal lavoro. “uno stato mentale positivo, appagante, correlato al lavoro, caratterizzato da vigore, dedizione e assorbimento; piuttosto che uno stato momentaneo e specifico, l’Engagement si riferisce a uno stato affettivo e cognitivo permanente e pervasivo che non è focalizzato su un particolare oggetto, evento, individuo o comportamento”.
Come possono un’organizzazione e il suo management favorire un vero engagement delle persone? Bisogna tenere in considerazione alcuni aspetti: la Voce dei dipendenti, la Partecipazione e la Narrativa Strategica.
- Le persone tendenzialmente non parlano se temono conseguenze negative o se ritengono che non verranno ascoltate. Se questo avviene, non c’è nessun engagement.
- Col passare degli anni, il successo dell’impresa sarà sempre più direttamente collegato alla quantità di energia che i collaboratori sono disposti a investire, e alla capacità di concentrarla e di dirigerla verso un unico e sfidante scopo. Non c’è modo più veloce di erodere la fiducia e l’engagement che parlare di valori e fare promesse e reclami circa la direzione in cui l’azienda si sta dirigendo, che abbiano poco o nessun riscontro nella vita lavorativa di tutti i giorni.
- La Narrativa Strategica è il processo attraverso il quale comunichiamo la storia, il significato, il senso epico dell’organizzazione. Deve parlare alle persone e delle persone che fanno parte dell’organizzazione stessa, deve farle sentire protagoniste attive della Storia dell’organizzazione, a prescindere dal ruolo che ricoprono.
Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro che il vero engagement ha a che fare con la creazione di senso e di significati “alti”, che abbiano un minimo di trascendenza e che “spostino in avanti” la vis della nostra mera presenza in un luogo di lavoro o svolgimento di compiti, per quanto importanti essi siano. Per essere coinvolti, e quindi partecipare, abbiamo bisogno di avere la percezione di spendere bene il nostro tempo, di essere utili e riconosciuti come tali.
Il semplice far parte di un’organizzazione può essere un motivo per sentirsi anche tassello di questo insieme. Oggi, però, più che un sentimento di appartenenza alla realtà, c’è un sentimento di appartenenza e sé stessi, al proprio ruolo, alla propria professione, ai propri saperi, alla propria esperienza. Il dipendente, insomma, si percepisce più come persona con una storia personale che, se le cose non vanno, può ricollocarsi altrove. Se si vuole stimolare o rafforzare l’engagement, non si può quindi ricorrere a questo vecchio cavallo di battaglia del management, ma fare leva su altri fattori abilitanti come scambio/interesse, la dipendenza e la responsabilità sociale.
Altrettanto importante è assumere un atteggiamento proattivo, ricordando che questo è un impegno prolungato nel tempo e che la continuità dell’esperienza dipenderà dei dipendenti dipenderà da quanto la percepiranno come qualcosa che contribuisce allo sviluppo e fortificazione della propria identità. Quanto siamo lontani da questo obiettivo? Secondo l’edizione 2023 del report “State of the Global Workplace” della società di consulenza Gallup al 2020, in Italia solo un dipendente su venti è engaged: il 5%. Si tratta del risultato più basso in Europa, dove la percentuale massima arriva comunque ad un risicato 35% (in Romania).
Michael Crozier, uno dei grandi maestri degli studi organizzativi, sosteneva che “non bisogna meravigliarsi se la gente non partecipa, ma piuttosto se e quando lo fa”. Un dato così dimostra però che in questa stagione del lavoro non sembra esserci più una grande sintonia tra i significati che le persone attribuiscono al loro “essere dentro” alle organizzazioni, e i significati che le organizzazioni a loro volta attribuiscono allo “stare dentro”.
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Psicologo del Lavoro Organizzazioni, CEO at Net Working Srl, Co-founder The European Hardiness Institute, Presidente Manageritalia Executive Professional, Istruttore Interventi Basati sulla Mindfulness(MBI/MBSR), blogger