Le PMI e la sfida della digitalizzazione
Nonostante la pandemia abbia costretto le PMI industriali ad accelerare alcuni aspetti della trasformazione digitale, l’approccio alla digitalizzazione rimane ancora poco “strategico” e le aziende continuano a faticare a inserire gli strumenti tecnologici nei propri processi in modo continuativo e costante.
Convinto da tempo che sulla digitalizzazione si giochi buona parte del futuro del nostro sistema imprenditoriale, Stefano Valvason (nella foto sopra), Direttore generale di A.P.I. – Associazione Piccole e Medie Industrie, ci parla del suo impegno per la crescita di una “cultura digitale” nelle aziende, di quanto è stato fatto e, soprattutto, di ciò che rimane da fare per traghettare le nostre imprese nel futuro 4.0.
Ritiene che l’emergenza pandemica abbia accelerato il processo di trasformazione digitale delle nostre PMI?
La pandemia ha sicuramente accelerato i processi di digitalizzazione all’interno delle imprese, soprattutto a causa della massiccia adozione dello smart working. Da diversi anni la priorità di A.P.I. è quella di sensibilizzare sul tema le nostre imprese e aiutarle a digitalizzare i processi aziendali, aspetto fondamentale per aumentarne la competitività. A partire dal 2015, abbiamo portato avanti una battaglia di rappresentanza a nome delle piccole e medie imprese lombarde per la diffusione della banda ultralarga nel nostro territorio. Nonostante i nostri sforzi, rimane ancora molto da fare per avere una copertura adeguata della rete veloce e, in mancanza di un’infrastruttura digitale adeguata, rischiano di essere vanificati gli ingenti investimenti in nuove tecnologie che i nostri imprenditori sono stati spinti a fare dalle agevolazioni previste dai Piani per l’Industria 4.0. Ci sono stati dei miglioramenti, ma, secondo il Digital Economy and Society Index della Commissione europea, l’Italia risulta in 24^ posizione su 27 Stati membri dell’UE, quindi siamo ancora oggettivamente una nazione fortemente arretrata dal punto di vista digitale.
In che direzione è andata la trasformazione digitale indotta dalla crisi pandemica? Che ricadute ha avuto sulle imprese?
Le ricadute sono state diverse, a seconda del livello di digitalizzazione dei processi aziendali che le aziende avevano già raggiunto prima della pandemia, livello che è legato al modo in cui l’imprenditore – o il management, se l’azienda è più strutturata – dirige la sua impresa. Distinguerei, dunque, tra azienda strutturata e non strutturata, intendendo per azienda non strutturata quella che non ha un livello di digitalizzazione adeguato, che si limita, ad esempio, a un utilizzo delle sole opzioni di base del pacchetto Office. Questo secondo tipo di azienda ha dovuto colmare lacune importanti e si è trovata nella condizione di dover adeguare in tempi rapidi la propria dotazione hardware/software e la propria infrastruttura digitale, altrimenti con il lockdown sarebbe stata marginalizzata, messa in condizione di non poter operare. Con lo scoppio della pandemia, dunque, l’azienda non strutturata, per evitare il blocco delle attività, ha dovuto fare “investimenti di emergenza” (acquisti di licenze software, firewall, adeguamento di software datati) non legati a un progetto di digitalizzazione ben definito. Le aziende più strutturate, invece, – quelle che, cogliendo anche il messaggio lanciato da A.P.I., avevano impostato progetti pluriennali di investimento verso la digitalizzazione, avevano segmentato i processi aziendali e formato il personale, creato indicatori di performance per misurare la produttività diventando aziende data driven – durante l’emergenza pandemica hanno investito nello smart working, nel cloud computing, nell’internazionalizzazione, raccogliendo quanto seminato negli anni precedenti.
Oltre a portare ad una generalizzata contrazione dei guadagni, l’emergenza Covid ha messo in luce, su tutto il territorio, i gap da colmare in termini di trasformazione tecnologica. Come giudica il livello di digitalizzazione della Lombardia?
Per quanto riguarda la diffusione della banda larga, la Lombardia è una delle regioni più arretrate d’Italia (in base all’indice di riferimento del piano nazionale Banda Ultra Larga). Ci sono regioni come la Sicilia, l’Abruzzo e il Friuli che sono nettamente in vantaggio rispetto alla Lombardia, cioè alla regione che produce circa il 22% del Pil italiano. Se poi confrontiamo la Lombardia con le altre principali regioni europee come il Baden Wuttemberg, il Rhône-Alpes, la Catalogna e così via, ci si rende conto di quanto ci sia ancora da fare sul fronte della digitalizzazione. Nella regione considerata la locomotiva d’Italia, la situazione è a macchia di leopardo, con alcuni comuni ben digitalizzati e altri dove gli imprenditori non possono usufruire di una connessione adeguata con le immaginabili conseguenze sulla competitività industriale del territorio. Le cito un caso accaduto nel 2018. Una nostra associata di Agrate ha perso un ordine perché il suo diretto concorrente polacco era riuscito a scaricare in mezza giornata i dati per la progettazione di un prodotto inviati da un cliente norvegese, mentre, dopo un’intera giornata, l’impresa lombarda li stava ancora scaricando. Se la situazione in Lombardia non è rosea, è impietoso, d’altronde, anche il confronto tra l’Italia e gli altri Paesi avanzati: nel nostro Paese i cantieri di posa della fibra ottica hanno completato solo il 19% dei lavori, mentre quelli per il wireless sono fermi al 10%.
Ci sono molti settori che, a seguito della crisi causata dal coronavirus, hanno dovuto adottare rapidamente strumenti digitali per continuare ad operare. Quali sono, secondo lei, i settori che dalla pandemia hanno tratto maggiore spinta per la propria trasformazione digitale?
Tra i nostri associati, posso affermare che sono stati i settori dell’alimentare e del tessile a ricevere la maggior spinta verso la digitalizzazione, perché erano più indietro su questo aspetto. Un po’ tutti i settori, comunque, sono stati spinti sulla strada della digitalizzazione. Molte nostre aziende ne hanno colto l’opportunità per migliorare i processi produttivi, le proprie politiche commerciali e il design dei prodotti, al fine di ottenere un vantaggio competitivo sulla concorrenza.
Quali sono, a suo parere, le tecnologie che ogni PMI dovrebbe conoscere e saper padroneggiare?
Ancora una volta dipende dall’azienda e dal suo mercato di riferimento. Le nostre associate – aziende industriali che hanno in media 20 dipendenti – tipicamente utilizzano Microsoft Office al 10% delle sue potenzialità, non hanno un CRM, non hanno digitalizzato i propri processi e sono state costrette alla fatturazione elettronica perché ne è stato introdotto l’obbligo. All’interno delle aziende c’è una forma di resistenza culturale al cambiamento e noi di A.P.I. cerchiamo di spingerle verso il cambiamento, forzando tale resistenza e consigliando un più ampio utilizzo delle funzionalità di Office, l’adozione di un CRM, la digitalizzazione dei processi in ottica paper less, l’e-commerce, l’inbound marketing, la realizzazione di un sito web evoluto e così via. Tutte cose che io, forse anche perché sono un ingegnere elettronico, ritengo requisiti di base, ma che per molte aziende rappresentano una significativa evoluzione. Non si deve, però, pensare solo agli strumenti da adottare, ma anche e soprattutto alle persone che vanno adeguatamente formate affinché siano messe in grado di utilizzare tali strumenti. Il rischio, infatti, è che, senza un’adeguata formazione, anche gli strumenti più evoluti siano utilizzati con le logiche precedentemente adottate. In tante aziende, ad esempio, ho visto amministrativi fare i calcoli con la calcolatrice per riportarne poi il risultato nel foglio di Excel. C’è tanto da fare per aumentare le competenze delle persone e cambiarne gli atteggiamenti nei confronti della digitalizzazione: non basta imparare a usare uno strumento, ma bisogna avere l’intelligenza di mutare le proprie abitudini e questo per l’imprenditore vuol dire anche rimettere in discussione il modello di business dell’impresa, intuendo cosa può fare di nuovo grazie alle tecnologie.
Quali sono i passi determinanti per ripartire puntando alla digitalizzazione?
L’anno scorso e quest’anno il tema dominante è stato indubbiamente lo smart working. Anche noi di A.P.I. ci siamo impegnati molto per promuoverlo, convinti che sia anche un modo per attrarre giovani talenti: un’azienda che permette di lavorare non solo presso i propri uffici, infatti, dà un’idea di apertura, di disponibilità alla conciliazione tra vita e lavoro, di flessibilità rispetto agli orari di lavoro. Chiaramente lo smart working non è applicabile a tutte le figure aziendali. Chi lavora in produzione non può farlo, ma ci sono una quantità di attività “di servizio” – l’amministrazione, la progettazione, il commerciale, l’assistenza post-vendita – che si possono fare da casa. Durante il 2020, ci siamo impegnati molto nello spiegare alle nostre imprese associate come introdurre lo smart working, quali strumenti utilizzare e quali metodologie applicare, non limitandoci a un approccio teorico, ma basandoci sulla nostra esperienza vissuta: anche in A.P.I., infatti, abbiamo introdotto il lavoro agile. Nell’approcciare la digitalizzazione noi consigliamo agli imprenditori di capire come le nuove tecnologie possono aiutarli a ripensare il proprio modello di business. Spesso, infatti, gli imprenditori scelgono di investire su determinate tecnologie seguendo l’esempio dei concorrenti o i consigli di qualche conoscente. Noi, invece, cerchiamo di fornire una visione d’insieme, di condividere con l’imprenditore le sue strategie aziendali che solitamente non ha formalizzato, anche se ha abbastanza chiaro in testa dove vuole portare la sua azienda. Una volta che è stata messa a punto, individuiamo quali tecnologie possono essere utili alla strategia e decidiamo insieme le priorità sulle quali concentrarsi. Tra le priorità c’è senz’altro quella di essere più flessibili, più agili, di tagliare costi e rigidità. Per adattarsi ai rapidi cambiamenti della realtà che le circonda, infatti, le aziende devono avere un’organizzazione snella e, tagliando i costi grazie all’implementazione delle nuove tecnologie, possono generare la liquidità indispensabile per nuovi investimenti.
La digitalizzazione cambia anche il rapporto con il cliente, agevolando una cultura customer-centric. Ritiene che le nostre PMI siano pronte ad affrontare questa sfida con i loro mercati di riferimento (che saranno, tra l’altro, sempre più globali)?
Se oggi un’azienda va bene è perché è capace di gestire e di creare valore aggiunto per i propri clienti. Una piccola impresa oggi non può vivere solo affidandosi alla bontà di quanto produce. I rapporti con i clienti, d’altronde, sono ancora basati su relazioni “informali”. L’utilizzo di strumenti come il CRM, la chat, la videocall possono aiutare ad avere un rapporto più stretto con i clienti. Un CRM, però, va progettato riflettendo su quali informazioni trarne per guidare le decisioni dell’imprenditore. Se i dati raccolti dal CRM sono ben strutturati, possono fornire all’imprenditore – il quale, di solito, si basa sul suo “fiuto” e sulle sue relazioni interpersonali – informazioni preziose e che non ci si immaginerebbe di poter avere. Nonostante la resistenza culturale da parte di alcune aziende, è il momento di investire sulle nuove tecnologie perché, soprattutto a causa della globalizzazione, il rapporto con i potenziali clienti (che, ad esempio, visitano un e-commerce) si fa più rarefatto: strumenti utili come il CRM, le chat o le videocall possono rendere tale rapporto più strutturato, meno episodico.
Un limite alla digitalizzazione delle piccole e medie imprese è la mancanza di competenze e figure aziendali specializzate. Ad oggi è difficile per una PMI dotarsi di “specialisti del digitale”. Le PMI preferiscono affidarsi a fornitori esterni, per lo sviluppo del sito web aziendale, la gestione dei canali online, l’implementazione di CRM o ERP o la gestione di campagne di web advertising. Difficile reperire sul mercato competenze ad hoc, certamente, ma, secondo lei, nelle nostre PMI non manca anche la volontà e la possibilità di formare e aggiornare le risorse interne? Mi sembra che siano poche le iniziative in questo ambito, perlopiù informali e basiche.
Non c’è dubbio che nel mercato del lavoro italiano mancano le figure professionali necessarie oggi alle imprese. Tali figure vanno formate e di questa necessità parliamo spesso con le università italiane che stanno lanciando appositi corsi di laurea, ma ci vorrà del tempo (3-5 anni) per formarle. Gran parte dell’attività formativa finanziata che l’A.P.I. gestisce per le imprese associate (circa 500 mila euro all’anno) è dedicata a lingue e informatica, ma si tratta di una formazione di base che accresce il livello di informatizzazione dei lavoratori, ma non crea le figure professionali avanzate necessarie oggi sul mercato.
Cosa sta facendo A.P.I. per aiutare le imprese a gestire la transizione verso la digitalizzazione e approfittare della fase che stiamo vivendo per ripensare i processi in chiave digitale, sfruttare dati e automazione e prepararsi per un modello di lavoro agile?
Da diversi anni ormai abbiamo assunto un ruolo di guida per i nostri associati. Non vogliamo essere la classica associazione datoriale del secolo scorso che si occupava di tutelare diritti e rappresentarli, con un atteggiamento “difensivo”, ma vogliamo avere un ruolo “proattivo” di guida e di indirizzo, parlando ai nostri associati di temi che noi stessi abbiamo sperimentato in A.P.I. Questo ci rende credibili nel momento in cui facciamo rappresentanza di interessi e andiamo a parlare alle istituzioni di digitalizzazione, di banda ultralarga, di strumenti finanziari agevolati.Siamo credibili quando facciamo informazione e formazione nei confronti dei nostri associati con i webinar, con i corsi finanziati di cui le dicevo prima, ma anche quando facciamo assistenza e consulenza su varie tematiche, dagli aspetti sindacali di relazione con il dipendente, alla privacy, al legale, alla sicurezza del lavoro in smart working, alle agevolazioni fiscali e finanziarie. A partire dal 2015, insieme ai nostri associati, abbiamo compiuto un lungo percorso che va dall’Industria 4.0 all’Impresa 4.0, alla fatturazione elettronica, all’utilizzo di piattaforme digitali per l’erogazione di servizi come il Welfare aziendale, a interventi sul web marketing e digital marketing, fino all’adozione dello smart working in azienda e al tema di quest’anno sul quale stiamo investendo molto: la cybersecurity. Siamo convinti, infatti, che le nostre imprese, una volta intrapresa la strada della digitalizzazione, sono esposte a una incredibile quantità giornaliera di cyberattacchi che possono avere esiti disastrosi. Quello della cybersecurity è un tema sottovalutato sul quale stiamo sensibilizzando i nostri associati affinché prendano le adeguate contromisure per tempo, in assenza delle quali le aziende sono molto vulnerabili.
Direttore responsabile de Il Giornale delle PMI