Lavoro ibrido: i trend, l’impatto sull’ambiente e sul benessere delle persone
Lo scoppio della pandemia a marzo 2020 ha portato un cambiamento radicale nei modelli organizzativi delle imprese: da un lato lo smart working si è inizialmente imposto come misura necessaria per limitare i contagi, dall’altro con la crescita del lavoro da remoto molte imprese hanno dovuto accelerare i processi di digitalizzazione per rendere sempre più funzionale il lavoro da casa.
Nonostante la “fine” dell’emergenza sanitaria, la tendenza – ove esiste la possibilità – è quella di mantenere un modello di lavoro ibrido, in parte in presenza e in parte da remoto. Queste nuove modalità stanno gradualmente cambiando l’intero assetto del mondo del lavoro e il modo stesso di misurare la produttività delle persone, con un impatto positivo sul loro benessere e sulla salute ambientale.
L’Osservatorio Smart Working 2020 ha rilevato che nella fase più acuta della pandemia (marzo-aprile 2020) in Italia oltre 6 milioni di persone lavoravano da casa: il lavoro agile da noi ha infatti coinvolto il 97% delle grandi imprese, il 94% nella Pubblica Amministrazione e il 58% delle PMI. Il 2021 vede una lieve diminuzione degli smartworkers, passando così da 5,37 milioni nel primo trimestre a 4,07 milioni nel terzo. Ma nonostante il parziale rientro negli uffici, gli studi dell’Osservatorio affermano che lo smart working sarà presente circa nel 90% delle grandi aziende, nel 62% della PA e nel 35% delle PMI, dove vige spesso ancora un sistema più legato al “vecchio” modo di lavorare e con un approccio più informale.
Inserito come modalità obbligatoria fino alla fine dello stato di emergenza (31 marzo 2022), attualmente e fino al 31 agosto 2022 le comunicazioni di smart working nel settore privato possono essere eseguite mediante la procedura semplificata già in uso, vale a dire che non è necessario allegare nessun accordo con il lavoratore. È chiaro, però, che il lavoro agile dovrà essere disciplinato attraverso delle norme, per tutelare lavoratori e datori di lavoro attraverso un accordo tra le parti di tipo consensuale; ad oggi non si ha nessun obbligo di firmare accordi scritti tra le parti, ma basta una comunicazione anche soltanto via e-mail. Anche gli accordi con i sindacati continueranno a non essere obbligatori ma opzionali e dovranno essere rispettati dalle aziende che applicano un CCNL o un accordo di secondo livello che disciplina il lavoro agile.
La situazione dovrebbe cambiare in autunno con la regolamentazione effettiva dello smart working e l’aggiornamento della legge 81/2017. Tra le principali novità si evidenziano: la regola per cui il datore di lavoro sarà tenuto a comunicare al Ministero del Lavoro solo i nominativi dei lavoratori e la data di inizio e fine delle prestazioni di lavoro in modalità agile; sarà prevista una possibile sanzione in caso di omessa comunicazione per ogni lavoratore in smart working non dichiarato e, probabilmente, incentivi alle aziende che adottano questa modalità di lavoro.
Uno degli Obiettivi di sviluppo dell’Agenda 2030, riguarda il benessere delle persone (Sdg #3): ovvero garantire una vita sana e promuovere il benessere a qualsiasi età. È ovvio che il lavoro occupa una quantità di tempo assai rilevante per ognuno e visto che forse la maggioranza di chi ha lavorato da casa durante la pandemia ha constatato un’importante riduzione di stress e malessere, fare marcia indietro sarà difficile. Innanzitutto, ci sono aspetti importanti per il benessere del singolo: evitare stress e perdite di tempo nel raggiungere il posto di lavoro, rendersi più autonomo nella gestione delle proprie mansioni, acquisire nuove conoscenze e competenze di tipo tecnico-digitale e perciò crescere e stare al passo con i tempi. Tutto questo può generare riduzione delle tensioni e occasione di maggiore autostima e responsabilizzazione del lavoratore, poiché il rapporto di fiducia tra dipendente e datore può consolidarsi maggiormente. Si può pertanto parlare di people empowerment, poiché la flessibilità nel lavoro è un sinonimo di una maggiore produttività e quindi di una reale soddisfazione della propria professione. Si tratta quindi di raccogliere questa opportunità come un forte elemento di innovazione, che guida verso un ecosistema di imprese e infrastrutture sostenibili, a misura d’uomo resilienti e inclusive, riprendendo l‘obiettivo #9 dell’Agenda 2030.
Lavorare da remoto può fare la differenza anche nella tutela dell’ambiente. L’Università Autonoma di Barcellona ha svolto un’indagine statistica grazie ai dati raccolti durante la pandemia. Da questo studio è emerso che se venisse introdotto stabilmente lo smart working per soli tre giorni alla settimana, si otterrebbe una riduzione del traffico veicolare del 25%, con riduzione del biossido di azoto liberato nell’aria pari all’8% e di altre sostanze inquinanti – come gas e polveri sottili – del 10%. Per capire l’impatto di questo beneficio basta pensare che se in un anno cinque milioni di smart workers lavorassero a distanza per due giorni a settimana, questo in termini di impronta ambientale corrisponderebbe a 166 mln Alberi Piantati, 49.000 Viaggi sulla Luna e 2.500.000 t di Co2 non emessa.
Managing Partner di IMC Group