L’aggiornamento delle competenze non può prescindere dal lavoro di squadra
Secondo un report del World Economic Forum, nel breve termine ci sarà uno sconvolgimento tale che 83 milioni di posti di lavoro spariranno e ne nasceranno solo 69 milioni di nuovi. L’organizzazione stima anche che il 43% delle mansioni lavorative sarà automatizzato nel 2027 rispetto al 34% del 2022, motivo per cui ritiene “urgente” un investimento nel capitale umano. Per la stessa ragione, ha lanciato anche la cosiddetta “Reskilling Revolution”: un progetto per garantire a un miliardo di persone una migliore educazione, competenze adeguate e pertanto opportunità economiche entro il 2030. Secondo l’Ocse, il tema dell’aggiornamento delle competenze è così dirimente che dovrebbero farsene carico i politici mentre Harvard Business Review sottolinea che è anche responsabilità di ogni singolo manager: in un articolo sul tema si legge che “è nell’interesse delle aziende iniziare subito a farlo in modo serio”. È tempo quindi di uscire dall’ultimo metro quadrato di comfort zone rimasto.
La definizione “zona di comfort” nasce in riferimento a uno spazio di temperatura compresa circa tra i 19-20 e i 26-27 gradi Celsius, zona nella quale ci si sente fisiologicamente a proprio agio e non si avverte né troppo caldo né troppo freddo. In psicologia, serve a indicare il “luogo” in cui sappiamo cosa fare e come muoverci. Ci mettiamo una vita a costruire il nostro e va da sé che, quando dobbiamo abbandonarlo senza nemmeno essere certi del risultato, la prospettiva sembra al limite del ragionevole. L’alternativa non è, però, migliore: stare fermi implica dirigersi verso un posto dove non c’è più spazio per noi.
Lo scrittore Arturo Pérez-Reverte nelle sue “Avventure del Capitano Alatriste” scrive che “un uomo deve camminare finché può, andare in posti lontani e farsi saggio, forse così potrà capire meglio”. Io credo fermamente che abbia ragione e che situazioni di “ansia controllata” possono indurre un “disagio produttivo”, ovvero spingerci nella condizione di apprendere cose nuove senza entrare in una dimensione in cui l’eccesso di stress abbatte le prestazioni. Questo 2024 mi sembra rispecchiare bene la situazione: l’intelligenza artificiale progredisce velocemente, ma la disruption non c’è ancora stata.
Harvard Business Review sostiene che per aggiornare le competenze “ci vuole un villaggio” e che la maggior parte del campione interpellato a questo proposito ha capito che è un processo che coinvolge più attori, ognuno con un ruolo diverso. La politica, per esempio, può stanziare fondi, il mondo accademico può sviluppare nuove tecniche per acquisire abilità, le compagnie possono avviare collaborazioni a questo proposito, e così via. All’interno della stessa organizzazione bisogna poi unire le forze coinvolgendo il management, le risorse umane e la stessa forza lavoro. L’importanza di questa collaborazione ci dimostra ancora una volta che, per raggiungere i risultati, non basta porsi un obiettivo, ma muoversi insieme verso una direzione comune.
Dire a un dipendente o a un collaboratore che deve partecipare a dei corsi di formazione perché Chat GpT sa già fare il suo lavoro, vuol dire dargli un motivo per preoccuparsi. Diverso è invece coinvolgerlo nella narrazione di un’azienda che guarda al futuro ma non vuole rinunciare al capitale umano che la sorregge e, proprio per questo, dà a quella forza lavoro un’opportunità per restare e crescere. Il punto di partenza è lo stesso, ma nel secondo caso l’individuo ha l’impressione che il processo in corso arricchisca la propria identità soggettiva e cresce il suo senso di appartenenza all’organizzazione. In questa situazione, il manager ha inoltre capito che l’individuo è un membro del suo team e che ne ha bisogno per vincere la partita finale.
Considerare l’organizzazione come una squadra è importante a prescindere dalla necessità dell’upskilling e del reskilling, ovvero del miglioramento delle competenze e dell’acquisizione di nuove. Non siamo a dama, dove le pedine si possono sacrificare per lo scopo ultimo. Bisognerebbe piuttosto immaginare di essere in un campo da calcio dove non basta Messi da solo a fare gol: gli altri giocatori devono prima passargli la palla e, prima ancora di questo, l’allenatore deve capire che quel giocatore dà il meglio di sé come attaccante. Siete più familiari col volley? Vale la stessa regola: l’alzatrice schiaccia solo dopo che la sua collega ha intercettato la palla e la palleggiatrice l’ha successivamente alzata e spinta nella sua direzione.
La squadra è qualcosa che si diventa e su cui bisogna continuare a lavorare. Anche quando l’insieme diventa gruppo, permane l’onerosità soggettiva dei singoli e le relazioni possono deteriorarsi per le ragioni più diverse. Giusto per fare qualche esempio: carichi di lavoro troppo consistenti o leggeri; differenza tra come ci si percepisce e come si viene percepiti; non detti che si accumulano. Compito di un coach è anche quello di intercettare queste difficoltà e studiare con l’azienda progetti che l’aiutino a riemergere, riprendendo la rotta durante le difficoltà anche con il mare in tempesta.
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Psicologo del Lavoro Organizzazioni, CEO at Net Working Srl, Co-founder The European Hardiness Institute, Presidente Manageritalia Executive Professional, Istruttore Interventi Basati sulla Mindfulness(MBI/MBSR), blogger