La sfida per la competitività globale passa per la transizione ecologica: l’Italia e l’Europa sono pioniere ma è il momento di cambiare passo
L’Europa ha finalmente un piano industriale unitario per la neutralità climatica. Lo scorso primo febbraio l’UE ha pubblicato il Green Deal Industrial Plan for the Net-Zero Age, che si pone l’obiettivo di garantire la leadership industriale dell’Ue nel settore in rapida crescita delle tecnologie net-zero. Questo piano si regge su quattro pilastri: un ambiente normativo chiaro e semplificato; accesso più rapido ai finanziamenti per il clean tech; formazione delle competenze necessarie; nuove regole commerciali per catene di approvvigionamento resilienti.
Cosa significa Net Zero
Net Zero è l’obiettivo, portato avanti dalle aziende europee, di azzerare le emissioni di carbonio entro il 2050, in modo tale da poter frenare l’aumento delle temperature globali e stabilizzarle entro 1,5°C. Su questa strada l’Unione Europea si prepara a diventare la prima economia e società a impatto climatico zero entro il 2050. Si tratta, in sostanza, di un valore economico misurabile in termini di posti di lavoro e fatturati aziendali. Con il Green Deal Industrial Plan dovrebbero arrivare inizialmente fondi ponte a breve termine di circa 250 miliardi di euro, che lasceranno poi il passo a un nuovo Fondo sovrano europeo (che la Commissione spera di stabilire prima dell’estate 2023).
In questa potenza di fuoco sta la risposta dell’Europa all’Inflation Reduction Act (IRA) del presidente USA, Joe Biden, che alloca 369 miliardi di dollari per l’ambiente. E l’Europa – che ha perso la battaglia dei chip e delle tecnologie abilitanti della digitalizzazione, dall’intelligenza artificiale alla realtà aumentata – ha gli strumenti per riuscire a competere e vincere su questo terreno.
L’Italia, in particolare, con la sua economia industriale organizzata su filiere e distretti, ha la dimensione ideale per essere il modello da seguire: ecco perché.
Il rinascimento dell’economia europea si basa sull’economia circolare
Il cambiamento è già in atto ed è un cambiamento epocale, paradigmatico. Parliamo di applicare il principio dell’economia circolare al design (studi recenti hanno dimostrato che il 45% delle emissioni di carbonio non è legato all’energia, ma ai prodotti), sulle linee di produzione industriali (attraverso il riutilizzo degli scarti di produzione e l’attivazione di processi di simbiosi industriale in grado di valorizzare le materie prime seconde) e a fine ciclo vita dei prodotti (attraverso il recupero e la rigenerazione delle risorse). Un approccio che può essere tracciato end-to-end grazie a una innovazione digitale abilitante come il Digital Product Passport.
Un cambiamento che tuttavia richiede, da un lato, molto impegno da parte delle imprese, e dall’altro una serie di spinte per essere più veloce ed efficace. Le spinte che ravvediamo in particolare sono: competenze (Green Jobs); investimenti (Venture Capital e Private Equity) e strumenti finanziari (Circular Economy Plafond) per accelerare la crescita delle imprese innovative e creare le condizioni per la trasformazione delle grandi imprese; innovazione sistemica che vada oltre l’interesse della singola azienda e lavori sul concetto di filiera e di collaborazione cross-settoriale.
Una sfida che richiede impegno, in primis per le aziende
Le risorse e le opportunità per cogliere la sfida della sostenibilità, come vedremo, ci sono e l’Italia può essere in prima fila nella rivoluzione europea in questo senso. Tuttavia non si può non considerare che questa sfida richieda energie e impegno in primis alle imprese, che se da un lato ne riconoscono l’importanza anche strategica, dall’altro sono spesso frenate dalla burocrazia, dalla paura dei costi necessari ad avviare gli interventi, dalla difficoltà nel calcolarne i ritorni economici, dalla mancanza di figure aventi le competenze adatte a gestire i processi di transizione ecologica e, non da ultimo, dall’inflazione e dalle difficoltà dettate dalla situazione macro-economica.
Nonostante ciò, le aziende italiane ci stanno provando: ad esempio, nell’ultimo decennio è aumentato il numero di brevetti relativi alle green technologies. Secondo il Rapporto dell’UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi), sono in aumento le domande delle invenzioni eco-sostenibili, che risultano essere in media il 9,6% del totale dei brevetti depositati in Italia, in linea, ma nella fascia alta, con le percentuali che, a livello globale, attribuiscono alle eco-invenzioni tra il 5-10% del totale dei depositi di brevetti. Crescono anche le Società Benefit (Benefit Corporation in inglese, ovvero società che, per qualifica giuridica, oltre allo scopo di profitto perseguono una o più finalità di beneficio comune, impegnandosi a creare valore condiviso e duraturo per l’ambiente e le persone e a misurarne l’impatto): a dicembre 2022 Assobenefit ne ha censite oltre duemila e seicento (2.626) nel nostro Paese, un numero più che raddoppiato nel corso dell’ultimo anno.
Un interesse verso la sostenibilità che può essere spinto dalle risorse messe in campo dall’Unione Europea e che può trovare terreno fertile nelle filiere italiane. Vediamo perché.
Tutti i fondi per la decarbonizzazione
I 250 miliardi in arrivo con il Green Deal Industrial Plan si sommano ai 401 miliardi di euro destinati a risorse naturali e ambiente del piano finanziario quadriennale dell’Ue e alle risorse della missione dedicata di Next Generation Ue (circa 60 miliardi solo per l’Italia, che vanno ad aggiungersi ai 200 del PNRR). Un fiume di liquidità che dimostra l’elevato commitment pubblico per il tema.
Anche a livello nazionale: in Italia l’intervento recente e massiccio della Cassa Depositi e Prestiti (CDP) nel venture capital ha contribuito a creare un substrato che può essere potenziato verso la Net Zero Industry. E che può generare un ulteriore effetto leva con la nascita di nuovi operatori privati verticali (sul modello 2150, World Fund, SET Venture, Close Loop Partners) e lavorando in sinergia con i Corporate Venture Capital (quali, ad esempio, Eniverse e Terna Forward).
Cariplo Factory, per esempio, insieme ad aziende come Pastificio Garofalo, Gruppo Getra, Gruppo Nestlé, e Novamont, si fa portavoce di questa istanza attraverso la gestione del programma Terra Next, l’acceleratore dedicato alle startup della bioeconomia, nato su iniziativa di CDP Venture Capital insieme a Intesa Sanpaolo Innovation Center. La bioeconomia è un nuovo modello economico che si propone di utilizzare le risorse biologiche, inclusi gli scarti, come input per la produzione di beni ed energia. In Italia il settore è molto rilevante: nel 2021 ha raggiunto 364,3 miliardi di euro in valore dell’output – circa 26 miliardi di euro più del 2019 – e impiega 2 milioni di persone, esprimendo oltre 1.000 startup innovative. Sul totale delle attività economiche la bioeconomia italiana vale il 11,4% in termini di produzione e l’8,2% se consideriamo l’occupazione. Sono i dati che emergono dall’Ottavo rapporto sulla bioeconomia, redatto dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo in collaborazione con il Cluster SPRING e ASSOBIOTEC – Federchimica. Terra Next è basato a Napoli, come il Polo nazionale di trasferimento tecnologico dedicato all’Agritech che rappresenta il più grande progetto di ricerca del PNRR nel Sud Italia. L’iniziativa punta a creare un network di aziende, università, centri di ricerca, startup e investitori focalizzati sull’evoluzione tecnologica del settore agroalimentare in termini di sostenibilità e competitività nel panorama internazionale.
Oltre la finanza: costruire competenze
Se le risorse economiche ci sono e devono essere “solo” canalizzate, quello che ancora manca e limita lo sviluppo del Net Zero sono le competenze. Non a caso, uno dei quattro pilastri del piano industriale europeo appena presentato.
Un tema centrale su cui, per esempio, la Fondazione Ellen MacArthur, impegnata a sostenere la transizione verso l’economia circolare a livello globale, ha lanciato una sfida importante: sensibilizzare oltre 60 milioni di designer nel mondo sul tema della circolarità e convincerne almeno 20 a sposarne principi e modelli. Il design, infatti, è una disciplina fondante per la transizione circolare per eliminare rifiuti e inquinamento, far circolare prodotti e materiali (al loro massimo valore) e rigenerare gli elementi naturali.
Non solo: di competenze – oltre che di tecnologie abilitanti – sono un bacino senza dubbio le startup. Quelle emerse dal già citato Terra Next sono portatrici di competenze specialistiche e sono dotate di una visione tale da essere propedeutiche a ispirare le nuove generazioni.
Questa visione è incarnata alla perfezione da storie come quella di TomaPaint, che ha recuperato un brevetto degli anni ’30 per l’estrazione della cutina dalle bucce di pomodoro e l’ha applicata alla produzione di vernici atossiche, create a partire dalla resina naturale che deriva dalle bucce scartate dall’industria conserviera. Una produzione anche a chilometro zero, dal momento che l’azienda ha sede a Parma, e tra Piacenza e Reggio Emilia viene trasformato più del 50% del pomodoro italiano.
O ancora, da DnDBiotech, che indentifica e isola batteri e funghi che distruggono i contaminanti organici cibandosene come fonte energetica. Questi microbi vengono utilizzati per degradare gli inquinanti dispersi in aree agricole o industriali e vengono portati nel suolo con un robot che ottimizza i parametri e minimizza i rischi. La startup è coinvolta nel più grande progetto al mondo di bioremediation in Kuwait, dove partecipano alla bonifica di terreni contaminati dalle bombe nella guerra del Golfo.
Un’opportunità tutta italiana: la rivalsa delle filiere in chiave sostenibile
Se talenti e tecnologie arrivano dalle startup – e in particolare da startup italiane sulle quali si sta investendo sempre più – fare innovazione sostenibile significa fare un salto culturale: innanzitutto ragionando non per la singola azienda ma in chiave sistemica. E l’Italia anche in questo campo può rappresentare il modello da seguire.
Il nostro Paese è da sempre organizzato, dal punto di vista industriale, sui distretti, ovvero intere aree geografiche piuttosto concentrate dove si sono sviluppate industrie specializzate. Tipicamente, all’interno di questi nuclei, la produzione è organizzata in filiere: dove una azienda, spesso di medie dimensioni ma leader nella sua nicchia, si avvale delle lavorazioni di tanti piccoli e micro fornitori della stessa area geografica. Questa organizzazione, che storicamente ha avuto il demerito di impedire la crescita dimensionale media delle nostre aziende, ora è il terreno ideale per lo sviluppo della nuova economia della sostenibilità.
Queste filiere sono la vera eccellenza del Made in Italy, ciò su cui l’Italia può costruire il suo futuro. Ma è necessario innovare e introdurre tecnologie che abilitino la transizione. Si parte dal capofiliera, per estendere questo concetto su tutta la catena del valore, perché non esiste sostenibilità che riguardi un solo anello.
Alcune filiere hanno già tutte le carte in regola per diventare teste d’ariete: mi riferisco all’agroalimentare dove, ad esempio, Nestlè Italia ha avviato un percorso di agricoltura rigenerativa con la propria filiera che portato a un risparmio idrico per la coltivazione del pomodoro di oltre il 40% o al tessile moda dove, ad esempio, recentemente Gucci, supportato dal Gruppo Kering, ha lanciato il proprio “Circular Hub” per guidare la transizione circolare della luxury fashion industry.
Ma è necessario sperimentare anche in settori che sono polverizzati e poco integrati, come quella delle costruzioni: si può, ad esempio, rivoluzionando completamente l’approccio tradizionale, arrivare a produrre nearly Net Zero Buildings (nZEB), come testimoniato dal modello Energiesprong Italia promosso da EDERA, società no-profit costituita a fine 2020 da Redo Sgr, ANCE, Fondazione Housing Sociale.
Insomma, fare sostenibilità di filiera può essere la chiave italiana per trovare un nuovo posto nel mondo economico e industriale. E fare davvero la differenza.
Chief Operating Officer di Cariplo Factory