La “grande dimissione” e le “nuove aziende orientate allo scopo”
Di questo fenomeno, già battezzato negli USA con il termine “Great Resignation”, abbiamo parlato con Andrea Fontana, sociologo della comunicazione e dei media narrativi, presidente di Storyfactory, docente di “Corporate Storytelling” all’Università di Pavia e Premio Curcio alla cultura 2015 e alla Divulgazione Scientifica nazionale 2019 nelle scienze sociali.
A cosa è dovuto il crescente fenomeno della “Great Resignation”?
Tantissime cause. Le persone – soprattutto nel settore dei servizi e del terziario, quasi il 70% della forza lavoro italiana (secondo Istat) – lasciano le aziende perché queste non si stanno adeguando alle nuove esigenze e consapevolezze personali.
Primo, le persone e i professionisti si sono resi conto che andare e stare in ufficio è un costo: ore nel traffico, inconciliabilità con impegni famigliari, presenza unica nei centri urbani. Ma si può lavorare bene dappertutto senza inquinare città e buttare tempo prezioso nel traffico.
Secondo, c’è il desiderio sempre più diffuso di poter lavorare per obiettivi che permette di svincolare la presenza fisica dall’ufficio, come luogo fisico. Ciò che conta è il risultato dell’attività di lavoro non l’ossequiosità ai capi.
Terzo, la possibilità di bilanciare impegni personali e famigliari: come professionista non mi deve essere sequestrato tutto il tempo di vita. Se ho un parente a cui voglio dedicarmi, perché magari ha problemi di salute, oggi posso lavorare standogli comunque vicino.
Molte imprese hanno capito queste nuove esigenze di lavoro – le famose new ways of working – e stanno cercando di organizzare nuove pratiche. Altre organizzazioni invece stanno facendo rientrare in ufficio o nella “fabbrica” tutti come se non fosse successo nulla in questi ultimi anni e ovviamente – di fronte a tale miopia – molti professionisti prendono la decisione, anche complessa e dolorosa, di andarsene perché cercano oltre che una paga economica e un ufficio anche valori, scopi, destini migliori.
La vita è entrata nel lavoro in modo invadente e ora la nostra identità vuole il suo spazio?
Proprio così. D’altronde pensiamo ai termini “ufficio” e “fabbrica”. Le parole che usavamo per definire i luoghi di lavoro. Derivano dal latino, rispettivamente “officium”: cioè dovere e “fabrica”: cioè il fare-costruire. Con la pandemia ci siamo resi conto che il lavoro non è solo dovere e fare. Ma oggi è – soprattutto nel mondo dei servizi e delle PMI – relazione, scambio, ricerca, innovazione, identità, creazione del valore tangibile e intangibile. E non esiste più un luogo-tempo di lavoro dato per creare relazione, ricerca, scambio, innovazione, ma è la vita stessa oggi che ci richiede nuovi modi di lavorare e creare quel plus economico-finanziario che ci permette di stare bene. Per questo, adesso, professionisti e imprese sono chiamati – insieme – a trovare nuovi “periodi” e “territori” del lavoro.
Come stanno reagendo le aziende e i leader a questo fenomeno?
In due modi. C’è chi sta rimuovendo le occasioni di cambiamento. E senza lungimiranza sta facendo tornare tutti in ufficio o in fabbrica focalizzandosi solo sul “dovere-fare” e quindi generando di conseguenza quelle spinte verso “la grande dimissione”. E c’è chi sta cogliendo le crisi in corso (sanitaria, economica e sociale) per trovare nuove formule e prassi di lavoro per innovare, ricercare, creare valore.
Tra l’altro, tutti gli ultimi dati confermano che le persone cercano oggi aziende che abbiano approcci sostenibili, senza leadership tossiche (aggressive e con il culto del capo), attente al bilanciamento tra vita di lavoro e professione, capaci di vero smart working, e purpose-driven, con valori e scopi sociali.
Così le aziende più lungimiranti, anche per richiamare talenti, stanno ottimizzando: nuovi modelli di leadership più inclusivi, processi di lavoro davvero intelligenti in cui il professionista può lavorare dove vuole perché la responsabilità viene declinata sui risultati non sulla presenza in un ufficio; nuovi spazi di lavoro più agili e flessibili in cui più che altro incontrarsi per confrontarsi, piuttosto che passare tempo fisico in presenza. È un processo aperto e in corso che rappresenta sicuramente una grande possibilità di crescita.
Dobbiamo affrontare nuovi percorsi di vita che cozzano contro quello in cui abbiamo creduto?
È un vero cambio di paradigma quello che stiamo vivendo. Dal lavoro del Novecento tutto posto fisso, presenza, dovere, ossequio, comando, controllo e aggressività performativa (che magari non raggiunge i risultati ma mostra di impegnarsi tanto), al lavoro del Terzo Millennio che si basa sui risultati (anche lavorando meno ore), sull’occupabilità, sul rispetto degli altri, sulla gentilezza nelle relazioni, sulla sostenibilità verso le persone e il pianeta, sull’innovazione tecnologica e sociale.
In sostanza: dalle aziende performance-driven alle organizzazioni purpose-driven. Siamo in una età di mezzo, tra un mondo e l’altro, per cui ci sono molti conflitti e resistenze, ma la strada è tracciata e prima riusciremo a vivere il nuovo modello prima creeremo valore sociale ed economico.
Nasceranno tantissimi nuovi imprenditori? Con che competenze?
Non c’è dubbio. Mi viene da dire in un termine che gli imprenditori nuovi saranno fondamentalmente wise innovator.
È Navi Radjou, uno studioso indiano-franco-americano, ad aver coniato questo termine. Lui sostiene che i wise innovator “non usano la loro intelligenza solo per arricchirsi – come fanno gli imprenditori della Silicon Valley – ma per elevare l’umanità. In particolare: guidano con mente imprenditoriale, cuore sociale e anima ecologica: non vivono dal collo in su (nel loro cervello). Sono in sintonia con il loro cuore – la sede della compassione e della generosità – e si sentono profondamente connessi alla Natura, piuttosto che esserne separati. Vanno ben oltre la consapevolezza: praticano “l’interezza” e guidano con tutto il loro essere. Costruiscono piattaforme che amplificano i talenti degli altri. Co-creano valore con un ecosistema di partner. Con grande umiltà e apertura mentale, si impegnano con partner nei settori pubblico e non profit per co-creare soluzioni vantaggiose per tutti che hanno uno scopo più ampio”. Questa definizione sembra filosofica e poetica, invece è il fulcro delle nuove leadership imprenditoriali basate sul purpose. E non è da praticare in un lontano futuro ma è già qui; molto vicino a noi anche nelle nuove politiche economiche del governo italiano: con il PNRR basato su sostenibilità, inclusione sociale, transizione ecologica e tecnologica.
Cosa ci aiuterà ad affrontare gli sforzi che dovremo fare per creare queste nuove transizioni?
Servirà in primis la politica e l’economia. Cioè le diverse Istituzioni dovranno incentivare (e lo stanno facendo) questo tipo di passaggio. Poi sicuramente tanta formazione, per creare il nuovo mindset e andare verso le nuove competenze, non scontate oggi. Poi la comunicazione per mobilitare le energie di tutti e motivare i tanti cambiamenti che non potranno essere imposti, altrimenti si otterrà l’effetto boomerang. Infine ai wise innovator saranno richiesti un’ardente volontà e un generoso coraggio, perché già adesso i mercati finanziari stanno sottolineando che premieranno le aziende capaci di vivere le transizioni di cui abbiamo parlato. Basta leggere l’ultima lettera di Larry Fink, Chiarman di Black Rock, ai CEO dove dichiara esattamente la necessità per tutte le aziende di orientarsi verso: il purpose, le transizioni sociali e tecnologiche, la sostenibilità, le leadership inclusive. Un nuovo attivismo che non è teoria, ma pura pratica per creare valore e supportare il proprio business.