Il DNA del Made in Italy è industriale
Il Made in Italy è Deep Tech
Nell’immaginario collettivo e nei media mainstream, il termine “Made in Italy” evoca da sempre scenari del nostro migliore sapere artigiano come abiti sartoriali, arredi di design e prodotti alimentari ambìti in tutto il mondo per la loro qualità ed eccellenza. Ma dietro questo “brand” di grande valore c’è molto di più: i settori industriali di spicco – soprattutto quelli del Deep Tech – che possono avere un impatto profondo nella vita delle persone e della società e che costituiscono il vero vantaggio competitivo per il Paese, trainando il nostro export oltre confine. Ed è proprio da qui che è necessario ripartire per ridefinire la narrativa dell’eccellenza italiana, al fine di attrarre investimenti capaci di accelerare la crescita delle nostre migliori imprese e accrescere la nostra competitività sui mercati internazionali.
E lo confermano i dati: secondo l’ultimo report SACE l’export d’oltralpe, a conferma dell’errato pregiudizio citato in precedenza, viene trainato dai Beni di Investimento – meccanica strumentale, mezzi di trasporto (tra cui automotive), elettronica e altri comparti tecnologici minori; nei primi nove mesi del 2023, il comparto ha segnato un notevole aumento (+9,9%), trainato dai mezzi di trasporto (oltre il 15%), con l’automotive che ha segnato un balzo del 17,3%. Anche la meccanica strumentale ha riportato una crescita significativa (+8,7%) in quasi tutti i segmenti ma con una maggior concentrazione nel settore delle macchine utensili e dei macchinari per il packaging. E si prevede che i beni di investimento continueranno a guidare la crescita delle esportazioni italiane anche nel 2024, con una previsione di aumento del 4,6%. Nel biennio 2025-26 si stima che il traino arriverà dai mezzi di trasporto (+5,1%) e dai prodotti elettrici (+5,3%), settori centrali per la transizione sostenibile.
Non solo, se si guardano le esportazioni italiane di beni per raggruppamento vediamo che oltre il 67% dell’export arriva dai settori industriali (Beni di investimento e Beni Intermedi). È, dunque, grazie a questi numeri, e non solo a quelli relativi ai settori del fashion e del food, che l’Italia è leader in Europa per produzione ed esportazione di beni industriali, seconda solo alla Germania.
Ed è proprio nell’identità industriale del “Made in Italy” che risiede il motore del nostro Paese. Ma dove si blocca questo meccanismo? All’interno delle piccole aziende e delle microimprese – cuore del tessuto imprenditoriale italiano – che per crescere necessitano di capitali coraggiosi e pazienti. In questo scenario il settore del Venture Capital (VC) ha dimostrato di essere per altri Paesi un motore di sviluppo molto importante; basti pensare alla Francia, che dieci anni fa aveva un livello di capacità produttiva di innovazione e di ricerca simile al nostro, se non inferiore in alcuni ambiti, e che grazie a ingenti investimenti statali in VC e in Trasferimento tecnologico è stata in grado di portarsi oggi ai primi posti della competizione europea per tecnologie e imprese emergenti. Di fatto, oggi la Francia è il sesto paese al mondo e il secondo in Europa per il valore di spesa interna lorda in ricerca e sviluppo, mentre solo nel 2019 ha speso ben 73 miliardi di dollari sempre nello stesso settore (rif. Business France Editor – Invest in France official website).
L’Italia, con la sua Ricerca scientifica di alto livello (siamo il 6^ Paese al mondo per pubblicazioni), le sue competenze tecnologiche diffuse su tutto il territorio nazionale e la resilienza dei suoi imprenditori, è in grado di realizzare prodotti industriali ad altissimo valore aggiunto, come e anche meglio della Francia. Tuttavia, affinché questo potenziale si realizzi appieno sono necessari capitali – privati e pubblici – che arrivino all’inizio della filiera dell’innovazione.
Ma per fare ciò sono necessarie con urgenza: una regolamentazione solida e affidabile nel tempo, non suscettibile di cambiamenti repentini avallati dalla prassi della applicazione di retroattività delle norme; una nuova narrativa nazionale, ovvero un vero e proprio Storytelling pensato in maniera strategica, che racconti un’Italia diversa da quella spesso dipinta, che non può essere solo food, fashion & tourism! bisogna avere il coraggio di guardare con lungimiranza e di affermare con orgoglio che l’identità del Made in Italy è prevalentemente industriale. Dobbiamo divulgare con continuità le nostre eccellenze tecnologiche e industriali, che compongono la nostra vera identità economica e sociale, e fare di queste la base della nuova cultura nazionale, di un sentire che renda ai propri cittadini un forte senso di appartenenza, e non di estraneità, quando si parla di Italia Paese industriale tecnologicamente avanzato.
Il ruolo del tech transfer: trasformare le startup di oggi nelle grandi imprese di domani
La possibilità di innovare del nostro Paese e la sua crescita economica sono direttamente proporzionali alla capacità delle nostre aziende di ridurre i tempi del Trasferimento Tecnologico.
L’innovazione è una componente essenziale della competitività del nostro Paese, ma per poter innovare continuamente occorre sviluppare la capacità di intercettare il cambiamento tecnologico, utilizzarlo all’interno della propria azienda e quindi di sfruttare al meglio idee provenienti dall’interno e dall’esterno dell’organizzazione.
Infatti, nonostante l’eccellenza della nostra Ricerca (evidenziata dal fatto che l’Italia si posiziona all’interno del 10% dei Paesi le cui pubblicazioni scientifiche sono tra le più citate al mondo, pur esprimendo bassi investimenti in ricerca e sviluppo – meno della media europea – e un numero di ricercatori decisamente inferiore agli altri paesi di punta dell’Europa), non troviamo però la capacità di inserirci nel mondo competitivo delle aziende, ovvero di trasferire il risultato della ricerca scientifica nel mondo imprenditoriale.
Le ragioni non riguardano soltanto l’approccio comunemente usato dalle accademie rispetto alla missione della ricerca stessa, bensì ne è causa l’intero sistema industriale italiano poco incline a collaborazioni con il mondo scientifico e, soprattutto, sempre più restio a investimenti in R&D proveniente dall’esterno della propria azienda. Infine, come dicevamo prima, anche la debolezza strutturale del sistema finanziario italiano nel settore del Venture Capital è un tema rilevante che concorre a rallentare il processo di trasferimento tecnologico nel nostro Paese. È chiaro che tutto ciò crea un effetto domino sul valore della produzione di brevetti industriali, che continua ad essere al di sotto di Paesi come Germania e Francia (4.600 brevetti di aziende italiane depositati all’Ufficio Europeo dei Brevetti nel 2020, contro i 25.954 della Germania e i 10.554 della Francia).
Tra ricerca e impresa, poiché parlano un linguaggio differente, è necessario creare un ponte che consente a questi due mondi così diversi di comunicare e interagire. È necessario, dunque, preparare operatori qualificati che riescano a collegare i punti interrotti nella filiera del trasferimento tecnologico, grazie a competenze ed esperienze consolidate negli anni, processi validati, metodologie specifiche e strumenti di analisi dei dati. Il trasferimento tecnologico non può essere improvvisato, tanto meno può essere implementato una tantum, al contrario è un processo che va accompagnato e strutturato all’interno di una collaborazione sistematica tra ricerca e impresa.
Il bagaglio di conoscenze e competenze specifiche di Trasferimento Tecnologico è fondamentale per creare un impatto economico e accelerare la capacità tecnologica di qualsiasi paese industriale, come l’Italia, in quanto consente di indirizzare la ricerca verso il mercato con tempi e costi competitivi.
Immagine di aleksandarlittlewolf su Freepik
Founder & Chairman di Deep Ocean Capital Sgr e Founder & Chairman di Quantum Leap