Il disallineamento fra il periodo di cassa integrazione Covid e il periodo di divieto dei licenziamenti: un problema da risolvere
Il Decreto Rilancio ha aggiunto ulteriori 5 settimane di cassa integrazione per emergenza Covid rispetto alle 9 settimane già concesse dal Decreto Cura Italia, per un totale di 14 settimane. C’è tuttavia un paletto da rispettare: le 14 settimane di cassa integrazione devono essere fruite all’interno di un preciso intervallo di tempo ricompreso tra il 23 febbraio e il 31 agosto 2020.
A partire dal 1° settembre e sino al 31 ottobre sarà poi possibile fruire di ulteriori 4 settimane di cassa integrazione. Questi scaglioni temporali valgono per tutte le imprese, ad eccezione di quelle del settore turismo, fiere, congressi e spettacolo, le quali potranno fruire delle ulteriori 4 settimane di cassa integrazione Covid già nel corso del primo periodo, senza dover attendere il 1° settembre. L’impianto normativo così delineato dal Decreto Rilancio sta tuttavia generando non poche criticità e preoccupazioni soprattutto per quelle aziende che hanno terminato o stanno per terminare le prime 14 settimane di cassa integrazione. Ove al termine di tale periodo le attività non fossero ripartite in tutto o in parte, quali rimedi potrebbero essere concretamente adottati dalle aziende per gestire gli esuberi del personale?
Il tema è alquanto spinoso, dal momento che, quanto meno sino al 17 agosto 2020, le aziende non potranno fare ciò che in una situazione di normalità avrebbero potuto fare, ossia procedere con i licenziamenti dei dipendenti. Infatti, è lo stesso Decreto Rilancio ad aver esteso sino a tale data il divieto, precedentemente introdotto dal Decreto Cura Italia, di disporre licenziamenti per motivi economici. Essendo preclusa la facoltà di recesso, le aziende dovranno quindi preoccuparsi di come gestire correttamente il personale durante il periodo ponte tra la fine delle prime 14 settimane di cassa integrazione e la scadenza del periodo di divieto dei licenziamenti.
Non è facile individuare le possibili soluzioni, né il legislatore si è minimamente preoccupato di offrire un rimedio. In tale scenario, le misure astrattamente percorribili dalle aziende potrebbero essere il ricorso alle ferie, ai permessi oppure ai congedi, tutti istituti che garantiscono la piena retribuzione del lavoratore ma che potrebbero non essere sufficienti a coprire l’intero periodo di carenza della cassa integrazione.
Si potrà, inoltre, valutare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali previsti dalla normativa ordinaria – non legati all’emergenza Covid – quali la cassa integrazione ordinaria o straordinaria oppure l’assegno ordinario a carico del FIS, ma i requisiti di accesso a tali strumenti sono più stringenti, senza considerare i costi di cui l’azienda dovrebbe farsi carico per via della contribuzione addizionale dovuta. In alternativa, l’azienda potrebbe ricorrere alla sospensione unilaterale dei rapporti di lavoro. Trattasi di una misura che, quanto meno in linea generale, implica il pagamento della retribuzione a favore del dipendente pur in mancanza della controprestazione lavorativa.
Non è tuttavia da escludere che, data la situazione eccezionale venutasi a determinare a causa del blocco dei licenziamenti e della mancanza di cassa integrazione, l’azienda possa essere legittimata a sospendere il dipendente dal lavoro senza pagamento della retribuzione.
Appare, dunque, evidente come il disallineamento fra il periodo di cassa integrazione Covid e quello in cui vige il blocco dei licenziamenti produca effetti distonici e rischi di non tutelare né le aziende né i lavoratori. È perciò indispensabile che il Governo intervenga urgentemente con misure adeguate ed idonee a colmare la falla normativa contenuta nella decretazione d’urgenza, ad esempio incrementando le settimane di cassa integrazione Covid o eliminando le finestre di accesso agli ammortizzatori sociali.
Giuslavorista dello studio Pirola Pennuto Zei & Associati