Giovannini (ASviS): “Per uscire dalla crisi ci vuole una resilienza trasformativa”
Che mondo sarà quello post-Covid? Una volta terminata la pandemia, torneremo al punto di partenza, o coglieremo l’opportunità di costruire un mondo migliore, più rispettoso dell’ambiente e delle persone, più sostenibile?
Enrico Giovannini (nella foto sopra), economista, già Chief Statistician dell’OCSE, presidente dell’Istat e ministro del Lavoro, attualmente portavoce dell’ASviS – Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, non ha dubbi: dalla crisi attuale dobbiamo uscire trasformati e indirizzati verso uno sviluppo sostenibile.
Professore, nelle scorse settimane si è svolto il Festival dello sviluppo sostenibile, la più grande iniziativa italiana – organizzata da ASviS – per sensibilizzare e mobilitare cittadini, imprese, associazioni e istituzioni sui temi della sostenibilità economica, sociale e ambientale. Può spiegarci cos’è lo sviluppo sostenibile?
Il concetto è molto semplice, ma l’attuazione delle misure necessarie per metterlo in pratica, invece, è molto complessa. Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza impedire alle generazioni successive di fare altrettanto. Nonostante lo sviluppo sostenibile abbia anche una dimensione economica, sociale, ambientale, è fondato soprattutto sulla giustizia intergenerazionale. I quattro pilastri della sostenibilità sono l’economia, l’ambiente, la società, ma anche le istituzioni perché, lo abbiamo visto e lo vediamo sistematicamente, nel momento in cui, com’è successo nelle primavere arabe, a causa del cambiamento climatico si verifica un boom dei prezzi agricoli, manca l’acqua che fa andare le centrali idroelettriche, la crisi economica diventa sociale e, a fronte dell’incapacità delle istituzioni di reagire, istituzionale, il che porta infine al collasso della società.
Come si misura lo sviluppo sostenibile?
Questo è un tema al quale mi dedico da venti anni perché uno dei primi progetti che mi trovai, nel 2001-2002 a gestire all’Ocse da direttore delle statistiche fu proprio la misura della sostenibilità. Parliamo un attimo della teoria. Cos’è che connette le generazioni? La quantità di capitale. Se si lascia ai propri figli un capitale inferiore a quello dai ricevuto dai propri genitori, alla lunga tutto questo rende insostenibile lo sviluppo, esattamente come accade per un’impresa. Il punto è che non c’è solo il capitale economico, ma c’è anche il capitale naturale, il capitale umano, cioè le persone, quello che sanno, e il capitale sociale, cioè le interazioni tra le persone. Mentre siamo in grado di misurare il capitale economico e il capitale naturale siamo sempre più in grado di misurarlo in termini fisici (immagini di dover dare il prezzo a una particolare specie di farfalle che magari abbiamo cancellato dalla faccia della terra), il capitale umano è difficile da misurare, il capitale sociale ancor di più. Se noi, quindi, potessimo misurare tutte queste forme di capitale con un’unica metrica, basterebbe sommarle e, nel caso trasmettessimo alla generazione successiva meno capitale di quello che abbiamo ricevuto, vuol dire che saremmo su un sentiero di non sostenibilità. Poiché non ci riusciamo, dobbiamo usare degli indicatori. Con l’Agenda 2030, firmata da tutti i Paesi del mondo nel settembre 2015, sono stati fissati 17 Obiettivi, i Sustainable Development Goals, articolati in 169 sotto-Obiettivi. L’Onu, l’Istat, tanti altri istituti di statistica provano a misurare l’andamento rispetto a questi Obiettivi e sotto-Obiettivi attraverso indicatori di varia natura. Noi come ASviS calcoliamo 17 indicatori compositi per i diversi Obbiettivi e l’8 ottobre abbiamo pubblicato gli aggiornamenti per il 2019 e (in parte) per il 2020.
Lei ha parlato di “resilienza trasformativa”. Può spiegarci cosa significa e come si lega al tema della sostenibilità?
Supponga di essere al tempo zero, diciamo il 2019. Nel 2202200 affrontiamo una crisi come quella che stiamo vivendo: ebbene, la resilienza è la nostra capacità (come la capacità di un materiale, di un’impresa, di una società), a fronte di uno shock, di tornare rapidamente al punto pre-crisi. Pensi a una bottiglia di plastica con dell’acqua dentro: se la schiaccia questa si comprime un po’, ma come smette di stringere torna esattamente com’era prima. Oggi veramente vogliamo tornare al 2019, quando avevamo disoccupazione elevata, disuguaglianze, inquinamento, ecc.? Per molti è naturale voler tornare al punto pre-crisi, ma la società può assumere questo obiettivo solo se quel punto era un punto ottimale, cioè di sviluppo sostenibile. Ma se non lo era, perché tornare dove eravamo prima? È meglio “rimbalzare avanti” applicando una resilienza che ci trasformi e ci porti su un sentiero di sviluppo sostenibile. Questo concetto, che abbiamo elaborato con il Joint Research Centre della Commissione europea nei quattro anni scorsi, è diventato adesso anche uno dei riferimenti dell’Unione europea. Non a caso, quello che tutti chiamano Recovery Fund, che non esiste, è in realtà il ‘Piano per la ripresa e la resilienza’. La Commissione ci dice – avendo assunto come guida i lavori da noi realizzati in questi anni – che i soldi stanziati dal Piano devono servire a trasformare il sistema economico e sociale italiano così da renderlo più resiliente alle future crisi, come quella del cambiamento climatico, o crisi finanziarie, o un’altra pandemia e così via. La resilienza trasformativa, dunque, non ci porta indietro a dove eravamo, ma ci fa rimbalzare avanti. In base a tale concetto di resilienza trasformativa noi proponiamo anche una riclassificazione delle politiche (ma vale anche per le strategie d’impresa). Invece di parlare di politiche economiche, ambientali, sociali, parliamo di politiche che proteggono, che promuovono, che preparano al prossimo shock, che prevengono il prossimo shock e che trasformano verso un sentiero di sviluppo sostenibile. Abbiamo analizzato, ad esempio, gli oltre 1000 articoli dei vari Decreti-legge varati dal Governo a partire dal Cura Italia, fino al Decreto Agosto, e abbiamo visto che la stragrande maggioranza sono misure di protezione, poco di prevenzione, poco di preparazione, poco di trasformazione. Visto che i fondi nazionali li abbiamo impiegati tutti per la protezione, dunque, ben vengano a questo punto i fondi europei, che però devono essere orientati in un’ottica di resilienza trasformativa. Ma questo vale anche per un’impresa: quando un’impresa viene colpita da una crisi come quella attuale, può scegliere una strategia di protezione, o può scegliere una strategia di rilancio, ma per farlo ha bisogno di trasformare il modo di operare.
Più volte lei ha ricordato che la responsabilità di una ripresa sostenibile è anche delle imprese, della società civile e che tutti devono programmare il rimbalzo, non solo i governi. Ritiene che la nostra società e il sistema imprenditoriale abbiano sufficiente consapevolezza del tema e della sua urgenza per cooperare con le istituzioni statuali alla programmazione di una ripresa sostenibile? Siamo pronti, insomma, per il salto culturale necessario per assicurarci uno sviluppo sostenibile? E in cosa consiste esattamente questo salto culturale?
I dati Istat elaborati a giugno per un incontro con ASviS sono assolutamente chiari. Nell’indagine fatta a maggio, quindi subito dopo la fine del lockdown, un terzo delle imprese con più di tre addetti rischiava di chiudere; un terzo aveva capito che, ancorché acciaccate, avrebbero potuto proseguire e un terzo delle imprese era in espansione o comunque aveva fatto i piani per il rilancio. La percentuale del primo 30% era sostanzialmente uguale per le imprese che prima della crisi avevano scelto la sostenibilità e per le imprese che non avevano scelto la sostenibilità, mentre il 30% di quelle che erano già in ripartenza e pronte a nuove strategie saliva al 40% per le imprese che avevano scelto la sostenibilità prima della crisi e scendeva al 25% per quelle che invece non avevano scelto la sostenibilità. Ciò vuol dire che un pezzo significativo del nostro Paese ha già scelto, anche se non necessariamente in modo sistemico, a favore della sostenibilità, anche perché conviene. Questo sta facendo la differenza nel momento in cui bisogna ripartire. È un segnale molto importante perché, a causa di questa crisi, tante persone hanno collegato tra di loro i problemi ambientali, sociali ed economici e hanno capito che Papa Francesco ha ragione quando dice che non possiamo essere sani in un pianeta malato. Quindi, stanno facendo scelte di consumo a favore di una sostenibilità a tutto campo. Lo stesso sta facendo il mondo della finanza, dunque perché anche il sistema imprenditoriale non dovrebbe andare in questa direzione?
Le imprese negli anni passati hanno investito molto nella digitalizzazione. Che legame c’è tra digitalizzazione e sostenibilità? Possono sostenersi a vicenda? Le imprese digitali possono essere anche più sostenibili?
Certamente sì, per questo nel mio libro del 2018 parlavo di economia “digicircolare”, che sembra uno scioglilingua, ma coglie il fatto che le due cose devono andare insieme. Pensi, ad esempio, all’uso di sensori all’interno dei pneumatici delle nostre automobili. Non solo tali sensori sono in grado di dire quando i pneumatici si stanno per rompere, e quindi permettono la manutenzione predittiva, ma aiutano a ritrovarli affinché si possano riutilizzare i copertoni. Faccio questo esempio per dire che tecnologie digitali ed economia circolare (cioè la possibilità non tanto di usare i rifiuti, ma di progettare i prodotti in modo che possano essere utilizzati più volte) vanno di pari passo in vari campi, dall’agricoltura, ai servizi, all’industria stessa. Stamattina stavo sentendo un servizio radiofonico su come i trattori guidati dai satelliti siano in grado di evitare di passare due volte sullo stesso terreno, riducendo drasticamente la quantità di gasolio consumato. Il punto cruciale è il seguente: nel mondo delle industrie abbiamo circa un 30% di costo del lavoro e un 70% di costi delle materie prime. Invece di accanirsi a risparmiare sul 30%, perché non ci si concentra sull’altro 70%? Oggi le tecnologie consentono di fare questo, anzi con il riciclo è possibile anche aumentare l’occupazione.
Quale dovrebbe essere il ruolo della formazione per aumentare la consapevolezza sul tema della sostenibilità? Pensa anche lei che diventi sempre più impellente investire nell’istruzione e nella formazione professionale, anche per adeguare le nostre imprese alla transizione verso la green economy?
Come ho già ricordato, il capitale umano è uno dei pezzi fondamentali del capitale. Spesso i manager, magari durante i party di Natale, dicono ai propri dipendenti “voi siete il vero patrimonio dell’impresa”. Peccato che i dipendenti non facciano parte dello stato patrimoniale nei conti, fanno parte dei costi. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che, se lei compra un computer, quello è un investimento e magari ha anche un bonus fiscale, mentre se investe nella formazione dei lavoratori questo è un costo e riduce i profitti nel breve termine. Questo per dire come anche i sistemi contabili siano un po’ datati. Ma ci sono anche altre tre considerazioni da fare. La prima ha a che fare con la cultura degli imprenditori. Noi avremo la possibilità di fare il salto di cui stiamo parlando se l’imprenditore saprà assumere una visione più generale del bene pubblico, fondata sulla sostenibilità. Poiché nel nostro Paese abbiamo tantissime piccole e medie imprese spesso ottime, ma subfornitrici delle grandi, se le grandi imprese non vanno in questa direzione, è difficile che le piccole prendano autonomamente questo indirizzo. Ecco perché anche nei sistemi di rendicontazione dell’attività delle imprese sempre di più si chiede alle grandi imprese di rendicontare lungo tutta la filiera. La seconda considerazione ha a che fare proprio con la rendicontazione. Le imprese che hanno scelto di fare il salto verso la sostenibilità sono quelle che hanno capito che la rendicontazione non finanziaria, l’obbligo di spiegare l’impatto dell’attività dell’impresa non solo in termini economici, ma anche ambientali e sociali, genera cambiamenti culturali profondi nell’azienda. Nel 2016, il Governo Renzi commise un grave errore, nonostante il nostro parere contrario, ascoltando chi pensava che la rendicontazione non finanziaria fosse solo un costo, mentre oggi tanti hanno capito che è un’opportunità, perché la finanza chiede sempre più spesso questo tipo di rendicontazione e aver scelto di limitarla a poco più di 200 grandissime imprese ha ridotto la competitività del nostro sistema. Per questo noi quattro anni fa avevamo proposto di prevedere tre anni di transizione per le imprese con 250 addetti e oltre. Il risultato di tutto questo è che ormai ci sono tantissime imprese che fanno la rendicontazione non finanziaria su base volontaria, ma non necessariamente usando gli standard che sono richiesti al settore finanziario. Insomma, una soluzione un po’ all’italiana che, però, non aiuta il sistema a fare il salto di qualità. L’ultima considerazione riguarda il reperimento delle risorse umane adatte. Quando si seleziona il personale da immettere in azienda, forse è il momento di introdurre una sorta di check sulla sostenibilità. Noi abbiamo tantissimi giovani bravi che escono dalle università, sul fronte della gestione dei materiali, della finanza e così via. Molti di questi sono stati formati ancora al vecchio paradigma. Sempre più università, però, stanno rivedendo i propri corsi di laurea nella direzione dello sviluppo sostenibile. Le faccio solo un esempio: l’Università di Padova ha recentemente lanciato un corso di Economia circolare che coinvolge 11 dipartimenti dell’ateneo, non i soliti due dipartimenti di Economia, uno di Management e l’altro di Macroeconomia. Ci sono gli ingegneri, i chimici, ma ci sono anche i filosofi, perché parliamo anche di etica, di cambiamento etico.
Prevede che, nel prossimo futuro, le imprese richiederanno figure professionali legate alla sostenibilità? Può citarci alcune di queste figure? E questa richiesta compenserà l’uscita dal mercato del lavoro di molte professionalità rese obsolete dalla digitalizzazione e dal progresso tecnologico?
Il centro studi di Randstad, facendo un’analisi sul settore della logistica, ha scoperto che la figura professionale più introvabile per il settore è quella di calcolatore delle emissioni, perché oggi la competizione si fa anche sulle emissioni di gas climalteranti. Nonostante che il mercato del lavoro stia già domandando quel tipo di figura, anche le grandi società di consulenza stentano a trovarla, perché servono competenze ingegneristiche, chimiche, economiche, statistiche e così via. L’università si sta riconvertendo, ma per valorizzare questo tipo di nuove competenze le imprese devono essere pronte a retribuirle in modo adeguato: sappiamo, però, che le piccole e medie imprese tendono a essere meno produttive delle grandi e quindi a pagare stipendi di ingresso più bassi. Questo vale ancor di più per il mondo digitale. Come fare? Quando sono stato ministro del Lavoro, una delle cose che abbiamo introdotto è il contratto di rete, in base al quale, ad esempio, tre imprese si possono mettere d’accordo per assumere una persona che lavorare part-time per ognuna. Questo consente di pagare livelli anche alti di stipendio e condividere con altre imprese il costo di quella risorsa così importante. È un approccio cooperativo, non puramente competitivo, ma in questa situazione può essere un approccio interessante. Che poi le nuove figure legate alla sostenibilità possano compensare i posti di lavoro che si perderanno a causa dell’automazione o alla chiusura delle attività più inquinanti è difficile da dire ora. Come si dice in questi casi, lo scopriremo solo vivendo. Quello che però è chiaro è che il mercato si sta muovendo molto velocemente, con una fortissima accelerazione proprio in questi mesi e chi resta indietro rischia di accumulare ritardi difficilmente colmabili. Lei pensi soltanto a quello che sta succedendo sul fronte della mobilità. Lei sceglierebbe di investire i suoi risparmi in una società di monopattini e biciclette elettriche o in una società che produce Suv diesel? Sappiamo che i produttori europei di automobili si sono fatti cogliere totalmente impreparati da questa rivoluzione, ma a pagarne i costi sono soprattutto i lavoratori.
Direttore responsabile de Il Giornale delle PMI