Galassi (A.P.I.): «Le PMI stanno reagendo alla crisi, ma l’Italia deve tornare a investire sul manifatturiero e tagliare le tasse»
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Da tempo Paolo Galassi (nella foto sopra, ndr), presidente di A.P.I. – Associazione piccole e medie industrie della Lombardia, ha lanciato l’allarme sulla tenuta del sistema delle piccole e medie imprese dopo la crisi del Covid-19, paventando, come emerge da diversi studi, la chiusura, entro l’anno, di circa un milione di PMI su tutto il territorio italiano. Un danno inestimabile, per l’economia nazionale, che richiama urgentemente la necessità di porre in atto interventi sinergici, anche a livello europeo, per rilanciare il sistema produttivo e recuperare la competitività del Paese.
Proprio dall’Europa e dalle recenti aperture sui nuovi strumenti finanziari anti-Covid a livello comunitario siamo partiti in questa intervista con il presidente di A.P.I.
Che ne pensa dell’accordo sul Recovery Fund siglato a Bruxelles nei giorni scorsi?
L’importo è inferiore a quanto previsto inizialmente e a quello ritenuto necessario da economisti come Carlo Cottarelli, ma è importante averlo ottenuto. Adesso bisogna che questi soldi arrivino alle imprese che, finora, di aiuti economici ne hanno visti ben pochi, a parte la “regalia” dei 600 euro. Speriamo che la burocrazia, le istituzioni siano rapide nel far arrivare queste risorse alle imprese. Non c’è tempo da perdere, infatti: nel 2020 in Italia il PIL scenderà a -11,2%, il peggior calo dell’Unione Europea, per risalire al 6,1% nel 2021, mentre l’80% delle aziende lamentano un calo del fatturato che va dal 30 al 50%.
L’Europa, stavolta, sembra essere stata meno “matrigna”.
Spesso contestiamo l’Europa, ma ci dimentichiamo che il grosso del nostro export – l’unica cosa che, con un mercato interno ridotto al lumicino, tiene in piedi la nostra economia – è diretto verso i Paesi del Vecchio Continente, soprattutto Germania, Francia, Spagna. Da europeista convinto, dico che non possiamo fare a meno dell’Europa, ma che le regole europee, il funzionamento dell’economia continentale devono cambiare radicalmente. Da un’Europa costituita da una dozzina di Paesi, industrialmente avanzati e omogenei dal punto di vista economico, infatti, siamo passati a un’Europa a 27 dove le differenze tra i vari Stati e i sistemi economici sono stridenti e l’unica cosa in comune è la moneta. Ci troviamo, così, ad affrontare la concorrenza di Paesi che hanno un costo del lavoro molto inferiore al nostro o il problema annoso del surplus commerciale tedesco. L’unico modo per poter uscire da questa pandemia globale è farlo uniti e, per far ciò, è indispensabile che l’UE funga da regista, per coordinare in modo congiunto i Paesi membri, evitando altresì forme di concorrenza sleale tra nazioni.
In un quadro preoccupante per l’intera economia italiana, ci sono stati settori più o meno colpiti dall’emergenza sanitaria. Dal suo punto di vista privilegiato, quali sono quelli che hanno maggiormente risentito del periodo di lockdown?
A parte l’alimentare, tutti gli altri settori manifatturieri, principalmente quelli “classici”, cioè metalmeccanica, chimica, tessile, sono stati duramente colpiti.
Quali misure urgenti bisognerebbe adottare per aiutare soprattutto le PMI ad affrontare la fase della ripartenza?
Andrebbero sorrette finanziariamente le imprese che hanno perso fatturato, ma se il sostegno alla liquidità lo si fa passare attraverso il sistema bancario il rischio è che alle imprese arrivi ben poco: gli istituti di credito, infatti, sono “ingessati” dalla necessità di tutelarsi da eventuali “truffe”, insoluti, e dalle garanzie che sono obbligati a chiedere alle aziende. Bisogna trovare meccanismi nuovi e più snelli.
Tra i provvedimenti presi in considerazione in questo periodo c’è anche la diminuzione dell’Iva. Secondo lei sarebbe una misura efficace, o ci sarebbe bisogno di seguire altre strade per riformare il sistema fiscale?
La riduzione dell’Iva sarebbe un provvedimento molto utile per cercare di rafforzare il nostro mercato interno. In Italia, però, è difficile tagliare le tasse: a una lieve diminuzione delle imposte dirette, infatti, ha corrisposto un aumento di quelle indirette (Imu ecc.). A fronte di una giungla di detrazioni, sarebbe meglio una drastica riduzione della pressione fiscale, soprattutto quella che pesa sul costo del lavoro: per garantire mille euro in busta-paga a un operaio di un’industria chimica oggi bisogna versare 2680 euro. Se fossi un operaio quei soldi li vorrei tutti per poi farmi un’assicurazione per la malattia e mettere via 500 euro al mese per la pensione. Al di là del taglio dell’Iva, comunque, la riforma più efficace sarebbe la possibilità di detrarre dalle tasse tutte le spese. In questa maniera si potrebbe ridurre il “nero” e diminuire l’Iva. Se non faremo così, chi paga le tasse ne pagherà sempre di più e chi non ne paga continuerà a farlo.
Secondo lei sarebbe stato giusto posticipare le scadenze fiscali di luglio?
Anche se le tasse le aziende alla fine avrebbero dovuto pagarle lo stesso, rimandare le scadenze a settembre avrebbe dato modo di riflettere e di individuare quali settori hanno sofferto di più per la crisi del Covid, dedicando a questi eventuali sconti o agevolazioni fiscali. Si è scelto, invece, di far “incattivire” gli italiani e di distribuire aiuti “a pioggia” (i 600 euro), senza preoccuparsi se chi li riceveva ne aveva davvero bisogno.
Tra i Paesi europei, il nostro è quello che sembra più colpito dalla crisi. Come mai, secondo lei? Non è che il Covid-19 è stato un “acceleratore” di un percorso di declino e di perdita di produttività che il nostro Paese viveva già da prima?
Il Covid-19 ha fatto risaltare ancor di più i difetti dell’Italia, un Paese che non ha investito sul manifatturiero, ha fatto ben poco per il sistema delle piccole e medie imprese, preferendo investire sul commercio e, oggi, sull’e-commerce. Per riprendere a crescere dovremmo rompere il meccanismo perverso della globalizzazione, per cui i vestiti di alcuni dei nostri marchi della moda vengono prodotti in Tunisia o in Cina e i freni della Brembo in Polonia. Dobbiamo puntare su produzione ad alta tecnologia e sulla qualità del nostro Made in Italy, fattori che potrebbero sopperire a un costo del lavoro più alto rispetto a quello dei Paesi emergenti.
Quali sono le sue previsioni per l’autunno? Per le nostre PMI la crisi del Covid-19 sarà il “colpo di grazia”, o ci sono speranze che il sistema imprenditoriale possa reagire come è già successo nel Dopoguerra?
Sono moderatamente ottimista, penso che una soluzione alla crisi alla fine la troveremo. Le PMI stanno reagendo, le tre Regioni più manifatturiere (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) stanno pensando a come aiutare le imprese ad affrontare la crisi di liquidità. Sarebbe bello che la risposta alla crisi fosse europea e che lo Stato italiano riuscisse a imporre una strategia politica di lungo respiro. Un esempio? Il rilancio dell’automotive oggi in crisi, ma che potrebbe vedere una ripartenza se riuscissimo a rendere “appetibile” e conveniente per i clienti l’auto elettrica, inducendoli a rinnovare il parco macchine.
Quale ruolo possono giocare le associazioni d’impresa in questa fase delicata?
Oggi il Covid-19 ha fatto capire che alle imprese non può bastare l’aiuto del commercialista o dell’avvocato. Le associazioni sono fondamentali per dare un indirizzo, per suggerire una strategia industriale quanto mai necessaria per uscire dalla crisi. Mai come in questo periodo siamo stati così vicini ai nostri associati e mai come adesso gli associati si sono rivolti a noi. Ci spaventa, però, che molte imprese ci rivolgano pressanti richieste di aiuto per evitare di chiudere.
Direttore responsabile de Il Giornale delle PMI