Emergenza Coronavirus: le ricadute sui contratti di locazione commerciale e i possibili rimedi per i conduttori
Come è noto, le misure adottate per il contenimento dell’epidemia da Covid-19 stanno incidendo pesantemente sulle attività di impresa. In particolare, per effetto dei DPCM dell’8, 9, 11 e 22 marzo 2020, su tutto il territorio nazionale sono tra l’altro sospese:
- le attività commerciali al dettaglio, ad eccezione delle attività di vendita di generi alimentari, farmacie e parafarmacie, tabaccai, edicole e venditori di alcuni generi di prima necessità;
- tutte le attività di ristorazione e bar;
- tutte le attività di palestre, centri sportivi, piscine, centri benessere, termali, culturali, sociali, ricreativi;
- le attività industriali, ad eccezione delle attività di produzione di beni e servizi di prima necessità, di quelle funzionali ad assicurare la continuità delle filiere, di quelle funzionali ad assicurare la continuità dei servizi di pubblica utilità e essenziali, di quelle che erogano servizi di pubblica utilità e servizi essenziali, delle attività di produzione, trasporto, commercializzazione e consegna di farmaci, tecnologia sanitaria e dispositivi medico-chirurgici nonché di prodotti agricoli e alimentari e delle attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa e di rilevanza strategica per l’economia nazionale.
Tali misure eccezionali hanno avuto e stanno avendo un impatto drammatico sugli esercenti delle attività che devono necessariamente rimanere chiuse, seppure temporaneamente. I conduttori degli immobili si sono visti infatti inevitabilmente preclusa la possibilità di svolgere la propria attività di impresa e, con essa, di trarre i proventi con cui onorare ai propri debiti, tra i quali quelli relativi ai contratti di locazione.
Ma, a ben vedere, il problema in esame si pone e si porrà nel prossimo futuro anche quando i conduttori potranno tornare ad usufruire pienamente dei locali una volta cessato il periodo dell’emergenza sanitaria, dato che gli stessi continuiranno a subìre probabilmente un forte decremento di redditività, sia per effetto delle misure di sicurezza che dovranno adottare (si pensi alle restrizioni delle modalità di fruizione dell’immobile, alle misure di igienizzazione, all’obbligo di dispositivi di protezione etc.), sia per il calo di consumi che produrrà una sensibile contrazione degli affari.
Tenuto conto che la disponibilità dei locali in cui si esercita un’attività commerciale o industriale è per lo più acquisita attraverso la stipula di contratti di locazione, occorre quindi verificare, in estrema sintesi, quali possano essere le conseguenze della situazione emergenziale sui contratti di locazione commerciale in essere, e quali rimedi siano a disposizione dei conduttori per fronteggiare questa situazione.
Poiché nella prassi contrattuale sono rare le clausole che regolamentano ipotesi di forza maggiore, e altrettanto rare quelle che prevedono la revisione del contratto (tramite adeguamento o rinegoziazione) al verificarsi di determinate sopravvenienze, le risposte devono ricercarsi, per lo più, nella normativa applicabile – generale e speciale – e nella giurisprudenza; tenuto conto che le considerazioni che seguono sono necessariamente generali, e prescindono da una valutazione dei singoli casi concreti, che è invece imprescindibile, dato che gli effetti economici negativi prodotti dalla pandemia possono manifestarsi in forma molto variegata, in ragione del settore dell’attività svolta dal conduttore, della tipologia di clientela di quest’ultimo e dei complessivi canali di vendita utilizzati in ambito commerciale.
La normativa emergenziale
Iniziando dalla normativa introdotta dal legislatore a seguito dell’emergenza epidemiologica, la stessa non disciplina finora specificamente i contratti di locazione, con due eccezioni.
In primo luogo, l’art. 65 del DL n. 18 del 17 marzo 2020 (cd. decreto “Cura Italia”), ha riconosciuto ai soggetti esercenti attività d’impresa (non rientranti fra quelle essenziali di cui al D.P.C.M 11 marzo 2020), per il mese di marzo 2020 – un credito di imposta pari al 60% dell’ammontare del canone di locazione, purché relativo agli immobili rientranti nella sola categoria catastale C1 (negozi e botteghe).
Il provvedimento, per quanto utile a lenire l’impatto della crisi determinata dall’obbligo di chiusura dei locali in cui veniva esercitata l’attività, riguarda solo una specifica (seppure abbastanza ampia) categoria di immobili – lasciando fuori, ad esempio, uffici, magazzini, laboratori – e per un periodo di tempo limitato, ed inoltre esaurisce i suoi effetti in ambito tributario.
Di portata più generale la norma di cui all’art. 91 sempre del Decreto c.d. “Cura Italia”, che, introducendo il nuovo comma 6-bis nell’art. 3 del DL 23 febbraio 2020 n. 6, ha previsto che “il rispetto delle misure di contenimento [dell’epidemia] è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Anche tale norma, tuttavia, ha importanza tutto sommato ridotta ai fini della nostra analisi, in quanto non introduce un esonero automatico del debitore da responsabilità per inadempimento, per effetto del contesto emergenziale in atto, ma si limita a rendere obbligatoria la considerazione, da parte dell’autorità giudiziaria, di tale contesto e delle relative limitazioni all’attività produttiva che ne conseguono, quali criteri di valutazione del comportamento del debitore. E d’altra parte, la prestazione cui è tenuto il conduttore, ovvero il pagamento del canone, rende improponibile la configurazione di una impossibilità materiale di adempiere; pertanto, la norma non può escludere di per sé la responsabilità del debitore-conduttore il quale ometta il versamento del canone nel periodo emergenziale.
L’autoriduzione del canone
Passando ad esaminare la disciplina in materia locatizia, è certo che, nonostante l’indisponibilità dei locali per effetto delle misure di contenimento dell’epidemia, il conduttore non può semplicemente astenersi dal versare il canone, né ridurlo unilateralmente rispetto all’importo contrattualmente convenuto.
Secondo la giurisprudenza, infatti, l’autoriduzione del canone da parte del conduttore è un fatto arbitrario ed illegittimo; neppure l’art. 1578 c.c., comma 1, c.c. – che prevede la possibilità del conduttore di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del corrispettivo in presenza di un inadempimento del locatore, consistente in un vizio della cosa locata che ne diminuisca l’idoneità all’uso pattuito – facoltizza il conduttore di operare detta autoriduzione.
D’altra parte, nel caso di specie, il mancato godimento dei locali oggetto di locazione non è certo ricollegabile ad alcun inadempimento del locatore (come invece presuppone la norma di cui all’art. 1578 c.c), bensì deriva da una causa di forza maggiore, sub specie di factum principis, e dunque non legittima in alcun modo il conduttore a sospendere o ridurre il canone di locazione, avvalendosi dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.
Lo scioglimento del contratto
È invece possibile per i conduttori ottenere lo scioglimento del contratto di locazione, per effetto della situazione emergenziale. Questo risultato può essere ottenuto in vari modi.
Anzitutto, è possibile esercitare il recesso ai sensi dell’art. 27 ult. co. L. n. 392/78, in quanto l’emergenza in atto può certamente considerarsi come un “grave motivo” previsto da tale norma quale giustificazione del recesso, trattandosi di un evento imprevedibile e indipendente dalla volontà del conduttore, tale da causare forti ripercussioni economiche negative su quest’ultimo. Tuttavia, in tal caso il conduttore deve dare al proprietario un preavviso di sei mesi, durante i quali deve continuare a pagare il canone.
In secondo luogo, i conduttori potrebbero chiedere al giudice la risoluzione del contratto di locazione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ai sensi degli artt. 1256 e e 1463 c.c. Non vi è infatti dubbio che i provvedimenti volti a contrastare l’epidemia configurano un caso di forza maggiore, rientrando in particolare nella fattispecie del c.d. factum principis, ovvero di un provvedimento emesso dalla pubblica autorità, imprevedibile, idoneo a incidere sulla realizzabilità del contratto.
Se è vero che i divieti disposti dai DPCM e dai provvedimenti regionali non rendono impossibile né la prestazione principale del locatore – ovvero la messa a disposizione di locali idonei all’uso che ne è consentito dal contratto – né quella del conduttore – ovvero il pagamento del canone – è altresì vero che l’evento pandemico e le conseguenti misure contenitive hanno reso la prestazione dei locatori priva della capacità di assolvere alla propria ‘funzione concreta’, ovvero la messa a disposizione dei locali per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale dei conduttori. Essendo dunque i beni locati inutilizzabili da parte del conduttore rispetto all’uso al quale erano stati destinati, ne consegue l’applicabilità del rimedio risolutivo ex art. 1463 c.c.
Del resto, in un recente caso in materia di locazione, la Cassazione ha ritenuto applicabile la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta di utilizzazione della prestazione da parte del conduttore, in presenza di una dichiarazione di inagibilità dell’immobile (che avrebbe dovuto essere destinato a scuola) conseguente al sisma dell’aprile 2009 (Cass. 26.9.2019, n. 23987).
Infine, i conduttori potrebbero chiedere – sempre esercitando un’azione giudiziale – la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1467 c.c., in quanto l’evento pandemico integra senz’altro un fatto sopravvenuto straordinario, del tutto imprevisto e imprevedibile, e tale da comportare una sostanziale alterazione dell’equilibrio contrattuale. In tal caso, di fronte alla domanda di risoluzione avanzata dal conduttore, il locatore potrebbe evitare lo scioglimento del rapporto, offrendosi di ricondurre ad equità la misura del canone.
Se si prescinde da quest’ultima eventualità – peraltro rimessa all’iniziativa del locatore – i rimedi sopra descritti conducono come si è detto allo scioglimento del rapporto locatizio; soluzione, questa, che tuttavia spesso non viene incontro alle effettive esigenze dei conduttori, i quali generalmente sono interessati ad una prosecuzione del rapporto locatizio – seppure a condizioni diverse – e non alla sua interruzione; ciò anche per evitare la disaggregazione dell’azienda in attesa della ripresa dell’attività. Inoltre, i canoni dovrebbero essere pagati fino al momento in cui venga dichiarata la risoluzione del contratto dal giudice (quindi per un tempo medio-lungo).
Il mantenimento del contratto con riduzione del canone
I conduttori, a fronte della situazione creatasi, hanno a disposizione rimedi che possono condurre non già l’estinzione del rapporto, bensì la sua conservazione, a condizioni diverse rispetto a quelle originarie?
È chiaro che la strada più semplice per arrivare a questo risultato è un accordo tra le parti, con il quale venga temporaneamente ridotto il canone e/o le condizioni di pagamento. Ma questa soluzione si presenta tutt’altro che semplice, dato che locatore e conduttore hanno interessi contrapposti, e che il primo generalmente si trova in una posizione di maggior forza contrattuale.
Un primo rimedio a disposizione del conduttore per raggiungere questo risultato (in assenza di accordo spontaneo tra le parti) potrebbe essere quello di proporre una domanda risoluzione del contratto per impossibilità parziale della prestazione, assumendo che l’epidemia e relativi provvedimenti contenitivi abbiano reso la prestazione del locatore parzialmente impossibile (dato che i locali, sebbene non utilizzabili, mantengono una qualche utilità residua per il conduttore, ad esempio come deposito). Il conduttore potrebbe quindi ottenere, ai sensi dell’art. 1464 c.c., una riduzione del canone proporzionata alla parte della controprestazione non utilizzata. Anche in questo caso, peraltro, solo dopo che si sarà pronunciato un giudice, e continuando a corrispondere i canoni nel frattempo.
Vi è poi un’altra strada che il conduttore potrebbe seguire per ottenere questo risultato: la rinegoziazione del contratto. E’ ormai sempre più consolidato il principio secondo cui, nei contratti di durata – come appunto è la locazione – quando insorgono delle sopravvenienze – cioè degli eventi accadimenti successivi alla stipula del contratto, che modifichino in misura significativa l’equilibrio iniziale delle obbligazioni delle parti (come certamente lo è stato per l’epidemia) – sorge un dovere di cooperazione tra le parti per rinegoziare il contratto, in modo da renderne il contenuto più congruo rispetto agli interessi dei contraenti. Questo dovere si basa sul principio di buona fede di cui all’art. 1375 c.c., che impone un controllo dell’equilibrio e della congruità delle prestazioni contrattuali.
Qualora, dunque, il conduttore il quale si trovi nella situazione di cui si discute, avanzi al locatore una richiesta di rinegoziare il contratto, chiedendo una riduzione del canone proporzionata al mancato godimento dello stesso per tutto il periodo di chiusura dell’attività, e/o al calo di fatturato per il periodo anche successivo, il locatore ha il dovere, in base al principio di buona fede, di prendere in considerazione tale richiesta, e quindi di iniziare una trattativa con il conduttore e condurla in buona fede fino all’eventuale accordo.
Naturalmente, il dovere di buona fede riguarda anche il conduttore, il quale non potrà avanzare pretese illogiche ed ingiustificate, ma dovrà parametrare la richiesta di riduzione del canone all’entità del pregiudizio effettivamente subìto, nel singolo caso concreto; tenendo in considerazione, tra l’altro, la misura di sgravio fiscale contenuta nel menzionato art. 65 Decreto Cura Italia, che, se usufruita dal conduttore stesso, ne allevierà l’entità del sacrificio economico subìto (limitatamente al mese di marzo 2020).
Qualora il conduttore si muova in tal senso, potranno verificarsi tre ipotesi. La prima, più semplice e favorevole, è che la trattativa tra le parti dia luogo ad un accordo, con cui viene temporaneamente rivisto l’importo del canone e/o le condizioni di pagamento. In questo modo, viene soddisfatto pienamente l’interesse di entrambe le parti, posto che il rapporto prosegue, sia pure a condizioni diverse.
La seconda ipotesi è che, di fronte alla richiesta di rinegoziazione del conduttore, il locatore resti inerte, rifiutandosi di avviare una trattativa, oppure che la conduca in modo scorretto, violando l’obbligo di buona fede nell’esecuzione del negoziato e impedendo che lo stesso possa avere buon fine. In questo caso, il conduttore potrebbe agìre in giudizio per ottenere dal giudice un ristoro per l’inadempienza del locatore (al dovere di rinegoziazione), a fronte dei canoni già versati, oppure per chiedere allo stesso di riadeguare l’importo del canone in rapporto alla sopravvenienza epidemica. In quest’ultimo caso, il conduttore potrebbe astenersi parzialmente dal versare i canoni, e paralizzare l’eventuale domanda di convalida di sfratto del locatore precedendolo con la propria iniziativa giudiziaria. Fermo restando che, se poi il giudice non dovesse accogliere la domanda del conduttore, o accoglierla in misura diversa, il conduttore sarebbe tenuto a corrispondere i canoni arretrati, o la differenza tra quelli già versati e l’importo ritenuto equo dal giudice.
La terza e ultima ipotesi è che le parti abbiano effettivamente condotto in buona fede una trattativa, e la stessa non abbia tuttavia prodotto alcun risultato utile, cioè non sia stato trovato un accordo. In quest’ultimo caso il conduttore non potrà dolersi del mancato risultato utile, posto che il dovere di rinegoziazione non implica anche quello di raggiungere necessariamente un accordo, e dovrà quindi ricorrere ad uno dei rimedi visti in precedenza. Occorrerà tuttavia valutare attentamente come le parti abbiano effettivamente condotto la trattativa, in quanto, ad esempio, di fronte ad una richiesta logica e motivata del conduttore di riduzione parziale del canone, un rifiuto immotivato del locatore potrebbe essere considerato in mala fede, ed esporlo quindi a responsabilità.
Valerio Pandolfini è avvocato e titolare dello Studio legale Pandolfini, con sede in Milano.
Si occupa da oltre venti anni di consulenza legale d’impresa, e in particolare di contrattualistica d’impresa nazionale e internazionale, diritto societario, compliance aziendale, proprietà industriale e intellettuale.
È autore di numerosi articoli e pubblicazioni e tiene regolarmente corsi e seminari per prestigiose università ed enti attivi nella formazione.