Context collapse

 Context collapse

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Bibliografia:

“How “context collapse” was coined: my recollection”
http://www.zephoria.org/thoughts/archives/2013/12/08/coining-context-collapse.html

“I tweet honestly, I tweet passionately: Twitter users, context collapse, and the imagined audience”
http://www.tiara.org/blog/wp-content/uploads/2010/07/marwick_boyd_twitter_nms.pdf

“La vita sociale in rete: una critica a Boyd”
http://www.etnografiadigitale.it/2012/09/la-vita-sociale-in-rete-una-critica-a-boyd/

#DigitalTalk con Massimo Airoldi, PhD candidate all’Università di Milano

[dropcap]I[/dropcap] Social Media permettono di comunicare contemporaneamente con persone appartenenti a contesti sensibilmente diversi, dal lavoro ad un hobby specifico, dallo sport alla politica, dalla religione all’arte. La necessità di mantenere una identità certa e verificabile, e orizzontale a tutti i diversi contesti, risulta impossibile. Nemmeno le impostazioni della privacy, disponibili su molti social, aiutano a mantenere i contesti delimitati, viste le infinite possibilità di condivisione (es. screenshot).

Questi i temi di cui trattava Danah Boyd, studiosa dei Social Media per Microsoft, già nel 2008, ipotizzando un “collasso dei contesti” tra lavorativo e privato (Context Collapse).

Non è d’accordo Massimo Airoldi, PhD candidate all’Università di Milano, che nel 2012 ipotizzava invece uno scenario diverso: «La mia opinione è che l’infrastruttura del web 2.0, anziché rendere i contesti comunicativi liquidi e impalpabili, al contrario li istituzionalizzi, rafforzi, strutturi».

A distanza di 7 anni il panorama dei Social Media (per lo meno quello italiano) vede la maggior parte dei professionisti verticalizzare il proprio blog, o in generale i propri contenuti, rispetto agli argomenti che meglio padroneggiano, o rispetto a quelli per cui si vogliono “posizionare” (vedi strategia).

Occasionalmente, qualcuno pubblica anche messaggi o post che escono dalla sfera professionale, ed entrano in quella più personale, senza mai però veramente mescolare lavoro e vita privata (o “collassare i contesti”). Visto il crescente numero di piattaforme social dedicate ad argomenti specifici, gli utenti tendono spesso a suddividere i contesti tra i vari canali, utilizzando per esempio Instagram per seguire o condividere contenuti riguardanti la moda, Facebook per connettersi con amici e parenti, Linkedin per le relazioni di tipo professionale. Alcuni social, come Google Plus (funzionalità poi ripresa anche da Facebook) permettono di raggruppare i propri contatti in “cerchie”, in modo da rendere più semplice la condivisione dei contenuti solo a determinate categorie di contatti, consentendo di fatto di frammentare i contesti della propria comunicazione.

Ad oggi, quindi, sembra che sia più il caso di parlare di “Context Fragmentation”, più che di “Context Collapse”.

A supportare questa teoria, anche le strategie social delle aziende, che tendono a creare account multipli sullo stesso social, per poter raggiungere audience sensibilmente differenti (ad es. Paesi diversi), e al tempo stesso utilizzano gli hashtag per raggiungere i diversi segmenti del proprio target.

Massimo: «Il fatto è che “il Web” inteso come totalità coerente, come luogo univoco, non è mai esistito al di fuori dei discorsi di giornalisti e accademici. Le pratiche online di consumatori e aziende sono costellate da contesti digitali specifici, da percorsi di navigazione e di utilizzo sempre più personalizzati e frammentati, a maggior ragione oggi che la nostra esperienza di utenti social è constantemente modellata dal filtro degli algoritmi, da Facebook a YouTube. Inoltre, al contrario di quanto scriveva Boyd nel 2008, il confine percepito tra le nostre vite online e offline si è drasticamente assottigliato (vedi questo esempio http://www.etnografiadigitale.it/2013/04/colpo-di-fulmine-realta-aumentata/), e facciamo sempre più fatica a ricordarci se una conversazione è avvenuta dal vivo o via WhatsApp. Dal mio punto di vista, gli unici contesti che stanno “collassando”, compenetrandosi sempre più, sono quelli tradizionalmente definiti come “virtuale” e “reale”. Viceversa, le miriadi di micro-contesti che oggi contraddistinguono la comunicazione online sono molto più chiari ed evidenti all’utente di quanto si possa immaginare. Sappiamo perfettamente che tipo di linguaggio e di contenuti sono adatti a una chat privata su Facebook con la fidanzata/o, e quali si prestano invece ad un post sulla pagina ufficiale della nostra azienda. Riusciamo a immaginare quale sarà l’audience del nostro messaggio senza nemmeno bisogno di rifletterci sopra, esattamente come è sempre accaduto offline (vedi i lavori del sociologo Erving Goffman). Questo non significa che non si possano commettere errori: lo testimoniano gli innumerevoli casi di lavoratori licenziati per una frase inopportuna su Facebook. Non bisogna dimenticare, però, che – seppur meno visibili – sono molto di più i casi di lavoratori licenziati per una frase inopportuna in ufficio, pronunciata pensando che il capo non fosse alle loro spalle. Come ricordava Joshua Meyrowitz in “Oltre il senso del luogo”, le situazioni sociali che fanno da sfondo alla comunicazione, sia dal vivo che mediata, non sono altro che flussi di informazione in movimento che, se mal interpretati, producono fraintendimenti. In sintesi, penso che, aldilà dell'”interfaccia”, non ci sia una gran differenza tra comunicazione online, comunicazione televisiva, comunicazione a mezzo stampa e comunicazione faccia a faccia: gli elementi fondanti sono sempre un comunicatore, un’audience e un messaggio. Il primo cerca di confezionare il messaggio più adatto a quelle che immagina siano le caratteristiche dell’audience che ha di fronte. Un processo lampante per il marketing e la vita professionale, ma non alieno alle interazioni private e (come insegna Goffman, solo apparentemente) disinteressate.

Più informazioni abbiamo a disposizione sull’audience, più chiaro sarà il target, migliore sarà la nostra comunicazione.

In questa banale considerazione sta la ragione della differenziazione contestuale che osservi nella comunicazione professionale. A questo proposito, Joshua Meyrowitz riportava l’esempio dell’esponente del movimento Black Power, Stokely Carmichael, paralizzato dall’eterogeneità dei pubblici televisivi e radiofonici: “in the shared arenas of television and radio, he found himself facing at least two distinct audiences simultaneously: his primary audience of back, and an ‘eavesdropping’ audience of whites. In personal (unmediated) appereances, he had been able to present two completely different talks on Black Power to black and white audiences, respectively. But in the combined forums of electronic media, he had to decide whether to use a white or black rhetorical style and text” (Meyrowitz 1985:43). Insomma: differenziare la comunicazione a seconda dell’audience è una pratica sociale ben più antica dei manuali di marketing, da sempre nel repertorio dell’interazione umana. Una pratica che, anzichè essere ostacolata dalle caratteristiche dei media digitali e dalla presunta invisibilità dei loro pubblici (vedi http://www.etnografiadigitale.it/2012/09/la-vita-sociale-in-rete-una-critica-a-boyd/), è favorita dalle possibilità di targeting implicite in una comunicazione “many-to-many” come quella online (vs la “one-to-many” del medium televisivo)».  

Quindi se da un lato i canali web, in particolare i social, ci permettono di frammentare i contesti e rivolgere la nostra comunicazione verso un target specifico, dall’altro i contesti tra virtuale e reale stanno collassando. Gli esempi che hai riportato sono indicativi.

Nel mondo professionale però, troviamo sempre più esempi di questo “mescolamento” dei contesti fuori e dentro il web. Mi riferisco, per esempio, alle competenze trasversali (soft skill) sempre più richieste in ambito lavorativo: il fatto di essere il capitano di una squadra di calcetto, si può tradurre in “capacità di leadership”, mentre far parte di un’associazione di volontariato può essere segno di “organizzazione del lavoro di gruppo”.

D’altra parte, alcune aziende e professionisti (stranieri) utilizzano i Social Media in maniera “innovativa”, raccontando le loro storie, condividendo momenti comuni al di fuori dell’ambito prettamente lavorativo, mostrando il lato “umano” dell’azienda, e di fatto uscendo dal proprio contesto. Possono essere questi esempi, di come il collasso dei contesti possa andare ad effettivo vantaggio di aziende e professionisti? Uscire dal “tunnel verticale” del proprio settore, mescolando ai contenuti professionali anche argomenti riconducibili ad altri contesti, può essere un modo per mostrare le proprie competenze trasversali, o si rischia semplicemente di creare confusione nel nostro target?

Massimo: «Come sempre, dipende dal target. Il fatto di mescolare i contesti, di presentarsi contemporaneamente come il capitano della squadra di calcetto ed il manager di successo, è pur sempre una

scelta strategica e consapevole, rivolta a determinati contesti e mirata a dare una precisa immagine di sé. È una decisione dell’utente e non, come sembra suggerire la teoria di Boyd, un’inevitabile conseguenza della trasformazione degli spazi comunicativi in cui interagiamo.

Dunque, un tipo di comunicazione basata sulle “soft skills” è certamente adatto a contesti professionali ad alto grado di informalità – la Silicon Valley, per intenderci – ma certamente meno a tante sfere lavorative più tradizionali. Certamente, il trend di lungo periodo – già ben avviato all’estero – è proprio quello di una “distanza dal ruolo” lavorativo (per dirla alla Goffman), di una sorta di umanizzazione del professionista. Dobbiamo però chiederci se in questi casi è la reputation lavorativa a diventare meno rigida e formale, oppure – viceversa – il tempo libero, la vita privata del professionista ad essere messa al servizio della competizione e del personal branding (sul tema è interessante il saggio “Status Update” di Alice E. Marwick, http://yalepress.yale.edu/book.asp?isbn=9780300176728)».

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