Centro Studi Confindustria: adesso è la manifattura italiana la locomotiva d’Europa
A differenza di quanto accaduto con le precedenti crisi globali, la manifattura italiana, dopo il tracollo di oltre 40 punti percentuali nel bimestre di marzo e aprile del 2020, non solo ha recuperato stabilmente i livelli di attività precedenti lo scoppio della pandemia, ma è diventata uno dei principali motori della crescita industriale nell’Eurozona.
È quanto emerge, dal rapporto elaborato dal Centro studi di Confindustria sulla “manifattura al tempo della pandemia”.
Lo sviluppo della manifattura globale negli anni che precedono la pandemia è stato caratterizzato da elementi di discontinuità importanti a livello strutturale, la cui origine – come argomentato già da tempo nelle analisi del Centro Studi Confindustria – è prevalentemente endogena, e riflette cambiamenti di segno diverso nei diversi sistemi economici. Le diverse aree del mondo industriale sono dunque entrate nella crisi sanitaria su presupposti difformi, che hanno condizionato il loro percorso successivo.
Gli Stati Uniti – nonostante un orientamento protezionista – non hanno registrato alcun ridimensionamento del cospicuo deficit commerciale accumulato negli anni della globalizzazione galoppante; e – nonostante i molti proclami – appare tuttora minimo anche il rientro in patria delle produzioni trasferite altrove. Negli USA (dato il ruolo del dollaro), l’equilibrio dei conti con l’estero non ha mai costituito un reale problema di politica economica (non ha cioè mai agito come un vincolo esterno alla crescita).
In Europa esiste invece un evidente problema di rallentamento della crescita, dovuto alla ricerca permanente di un miglioramento della competitività (per recuperare quote aggiuntive di domanda al di fuori dei confini nazionali) e dunque a una strategia di sostanziale deflazione interna. Ma – essendo le esportazioni complessive dei paesi europei per circa la metà esportazioni intra-area – le politiche di contenimento della domanda interna sono risultate al tempo stesso politiche di contenimento di una quota importante della stessa domanda estera dei singoli paesi.
Il quadro è ancora diverso per le economie emergenti, dove gli elementi di cambiamento agiscono almeno su due livelli. Il primo consegue alla frenata della domanda proveniente dall’Occidente negli anni successivi alla crisi finanziaria, che ha forzato un ri-orientamento delle politiche da una crescita fondata su una logica strettamente export-led verso esplicite strategie di Domestic Demand-Led Growth (ddlg), fenomeno che ha assunto una particolare intensità nell’area est-asiatica e massimamente in Cina. Il secondo riguarda la strategia di decoupling perseguita dal Governo americano, orientata a ridimensionare il grado di dipendenza dalla manifattura cinese. Ma, soprattutto, a determinare l’effettiva intensità del “disaccoppiamento” è stata la crescita della domanda interna in Cina, le cui dimensioni hanno consentito alle altre economie est-asiatiche di ri-orientare verso di essa una parte delle loro esportazioni, accrescendone il peso come fonte della domanda finale dell’area. L’esito è il costituirsi dell’area come un autonomo polo manifatturiero mondiale, che porta a compimento una integrazione già evidente negli anni che precedono la globalizzazione e riporta in primo piano un regionalismo che – anche negli anni del multilateralismo al suo apogeo – non ha mai cessato di esistere.
A queste dinamiche si aggiungono gli effetti di scelte deliberate di politica industriale, che negli anni pre-pandemici hanno contribuito ad allentare i legami commerciali e produttivi tra Nord e Sud del mondo. Da questo punto di vista va segnalata in particolare la strategia di “disaccoppiamento” dall’Occidente perseguita dalla Cina dal lato dell’offerta, con l’obiettivo di acquisire una crescente indipendenza tecnologica.
In questo quadro va sottolineato che a un venticinquennio dall’istituzione della WTO (leva “strategica” del processo di globalizzazione), di fatto l’unica area del mondo in ritardo effettivamente investita da un processo di sviluppo della manifattura (escludendo i paesi dell’Europa orientale, senz’altro emergenti ma già con un passato industriale alle spalle) è stata l’Asia orientale, che sulla scia della tumultuosa crescita cinese ha recuperato in pochi anni quella che è stata definita la Great Divergence dei paesi asiatici rispetto alle economie occidentali nel corso del xix secolo, riproponendo sulla scena globale un nuovo policentrismo manifatturiero.
Va inoltre sottolineato che lo sviluppo di catene di fornitura nel mondo “emergente”, e in particolare nell’area asiatica, non ha mai implicato – se non in alcuni ambiti – uno smantellamento della produzione manifatturiera nei paesi industriali, nei quali le dimensioni effettive dell’offshoring non sono mai arrivate a investire una quota preponderante della produzione. Il punto è che le dimensioni assolute delle attività esternalizzate dalle economie più sviluppate sono bastate ad alimentare l’avvio di un processo di industrializzazione nelle economie in ritardo per le modeste dimensioni di partenza delle loro industrie (Cina inclusa).
Emergono comunque numerosi segnali di una maggiore regionalizzazione degli scambi a partire dal 2015, in alcune regioni e alcuni settori, che potrebbe essere ulteriormente accelerata dalla pandemia. A questo riguardo la costruzione di una matrice delle interdipendenze commerciali tra le principali aree economiche mondiali consente di mostrare che il commercio intra-area risulta in aumento per tutte le aree fuorché l’Europa (dove il livello è però tuttora eccezionalmente alto); l’incremento più rilevante caratterizza l’Asia, dove il livello di integrazione è paragonabile a quello americano.
L’improvvisa carenza di input imposta dal blocco del commercio mondiale conseguente alla serie dei vari lockdown ha in ogni caso segnato la fine di una fase storica in cui il soddisfacimento della domanda interna dei paesi avanzati era stato dirottato dal terreno produttivo a quello commerciale (e dunque dall’impresa al mercato), facendo emergere l’intrinseca vulnerabilità di un modello di frammentazione verticale del valore aggiunto su catene di fornitura lunghe e disperse geograficamente su scala globale.
Le tendenze recenti dell’attività produttiva, del commercio internazionale e degli investimenti esteri
Dopo il crollo dei primi mesi del 2020, l’industria di trasformazione a livello mondiale ha risalito velocemente la china nella restante parte dello scorso anno. Successivamente al rimbalzo, tuttavia, il percorso di crescita si è sostanzialmente interrotto. La prima spiegazione del ristagno globale è riconducibile al ritardo nell’implementazione della campagna vaccinale fuori dai confini dell’Occidente, unito al dilagare della cd. variante Delta del Covid-19, che ha indotto i governi di molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in Asia, a ricorrere a misure di confinamento della popolazione.
Oltre ad avere condizionato negativamente l’attività produttiva, questi problemi hanno determinato interruzioni nelle forniture di materie prime e semi-lavorati, e dunque minore disponibilità e maggiori prezzi degli input per le produzioni manifatturiere a valle delle catene del valore. A queste difficoltà si sommano quelle dovute ai ritardi nel ripristinare la movimentazione delle navi cargo attraverso i principali punti di snodo dell’Asia con quelli europei e nord-americani: fattori incidentali (la chiusura di alcuni scali portuali cinesi nei mesi estivi o il blocco del canale di Suez in marzo) si sono sommati a protocolli sanitari più stringenti per lo scarico delle merci e – tra l’altro – a esigenze di ricostituzione delle scorte, traducendosi in aumenti dei costi di trasporto e ulteriori strozzature nelle catene di approvvigionamento. I considerevoli aumenti nei prezzi delle commodity sembrano essersi stabilizzati – o essere in parte addirittura scesi – nella fase più recente; nella misura in cui essi sono collegati al rialzo delle quotazioni del petrolio, si potrebbe trattare di aumenti temporanei.
La caduta dei livelli di attività economica nel corso del 2020 ha comportato per la prima volta nell’ultimo quinquennio – anche per la manifattura – una riduzione dei livelli globali di emissione di CO2, in termini di contributo sia diretto che indiretto (impiego di energia da fonti fossili), che sono stimati in discesa tra il 2019 e il 2020 del 2,4%, nonostante il contributo ancora negativo della Cina.
Lo scoppio della pandemia, con il conseguente blocco dell’attività produttiva in tutti i sistemi economici, ha avuto un impatto forte e immediato sullo scambio internazionale di beni; il riavvio dell’attività produttiva dal terzo trimestre 2020, a sua volta favorito dall’arrivo dei vaccini, ha fornito nuovo slancio al commercio mondiale, che nel primo trimestre 2021 ha raggiunto il picco pre-crisi (terzo trimestre 2018), riagganciando il trend precedente.
La dinamica degli scambi mondiali dipende, peraltro, anche dall’incerta evoluzione dei rapporti commerciali tra le principali aree. Da questo punto di vista tre grandi accordi possono giocare un ruolo centrale: il Trade and Cooperation Agreement (TCA) tra UE e UK (entrato in vigore il 1° gennaio 2021), che modifica i rapporti, non solo commerciali, tra la Gran Bretagna e l’Unione; il “risorto” Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP) siglato nel 2018 da Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam sulle ceneri del Trans-Pacific Partnership (mai entrato in vigore per l’abbandono degli Stati Uniti), verso cui l’attuale Amministrazione USA ha manifestato un nuovo interesse; e – soprattutto – il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), che rappresenta il più grande accordo mondiale. L’accordo, che mette insieme Cina, Corea del Sud, Giappone, Australia, Nuova Zelanda più i dieci membri dell’asean (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam), segna l’avvio del blocco commerciale più grande al mondo, e mira ad accrescere il livello di integrazione di un’area che aveva ereditato dal passato una forte frammentazione interna sul piano politico, conducendo allo stesso tavolo negoziale per la prima volta paesi a diverso grado di sviluppo e storicamente spesso in forte contrasto tra loro. I paesi che ne fanno parte contano in totale oltre 2,2 miliardi di abitanti, esprimono quasi il 30% del pil e il 27% del commercio mondiale e realizzano da soli più del 50% della produzione manifatturiera globale. Su queste premesse è immaginabile un rafforzamento della leadership economico-commerciale della Cina nella regione, che appare destinata a diventare il punto di riferimento regionale per stabilire, modellare e diffondere le proprie regole commerciali e i propri standard tecnologici.
A livello globale, aumentano comunque contemporaneamente le misure protezionistiche che rendono più difficili gli scambi internazionali di beni. Secondo quanto riportato dal Global Trade Alert, nei primi dieci mesi del 2021 sono state introdotte nuove misure rispetto allo stesso periodo del 2020, a fronte di una riduzione delle misure che agevolano gli scambi.
Nel primo semestre 2021 il flusso di capitali esteri (IDE) investiti nel mondo è aumentato, recuperando i livelli pre-Covid, dopo il crollo registrato nel 2020 (-35% rispetto al 2019). La crescita nasconde tuttavia una certa eterogeneità, sia sul piano geografico (i paesi sviluppati hanno registrato un aumento più forte e consistente rispetto a quelli emergenti e in via di sviluppo), sia per le modalità di investimento (un ricorso maggiore alle fusioni e acquisizioni rispetto alla costituzione di attività greenfield). I comparti maggiormente beneficiari dei capitali esteri sono quelli della salute e della transizione ecologica. Anche per gli IDE, così come per lo scambio internazionale di beni, emerge una tendenza alla regionalizzazione, ovvero la presenza di una più elevata quota intraregionale degli IDE, in Europa, in Nord America e nell’Asia orientale.
La manifattura in Italia
Nel corso del 2021 la manifattura italiana ha recuperato stabilmente i livelli di attività precedenti lo scoppio della pandemia, diventando uno dei principali motori della crescita industriale nell’Eurozona. In Germania e Francia, nonostante un calo meno drastico dei volumi di produzione nei mesi più critici del 2020, il pieno riassorbimento dello shock appare ancora lontano.
La performance industriale italiana è spiegata innanzitutto da una dinamica della componente interna della domanda che, grazie alle misure governative di sostegno ai redditi da lavoro prima e di stimolo alla spesa dopo, ha dato un contributo decisivo alla ripresa della produzione nazionale. A fronte di un fatturato estero che ad agosto del 2021 ha segnato un +2,8% in valore rispetto al picco di febbraio 2020, il fatturato interno ha registrato nello stesso arco temporale un +7,0%.
Un ruolo fondamentale è poi rappresentato dal basso grado di esposizione delle imprese manifatturiere italiane alle strozzature che stanno affliggendo le catene globali del valore in questo frangente. Con riferimento all’inizio del terzo e quarto trimestre del 2021, “solo” il 15,4% di esse ha lamentato vincoli di offerta alla produzione per mancanza di materiali o insufficienza di impianti, contro una media UE del 44,3% e a fronte addirittura del 78,1% dei rispondenti in Germania.
La dinamica complessiva della demografia di impresa nel manifatturiero non ha quindi subito variazioni di rilievo per effetto della crisi pandemica, anche se il saldo tra iscrizioni e cessazioni continua ad essere negativo: la perdita cumulata tra il 2017 e il 2021 è stimata in oltre 37mila unità.
Molto eterogenea a livello settoriale la dinamica della produzione italiana nell’ultimo biennio. Bene, sotto la forte spinta alla digitalizzazione, il comparto dell’elettronica e, con il traino del boom degli investimenti pubblici e privati in costruzioni, tutti i comparti legati alla filiera dell’edilizia. Ancora male, per problemi di domanda e strozzature di offerta, i settori della moda e dei mezzi di trasporto. Segno negativo – in controtendenza rispetto alla dinamica osservata a livello medio globale – anche per la farmaceutica.
Gli scambi italiani di beni con l’estero, dopo il crollo registrato nel secondo trimestre del 2020, sono ripartiti in modo rapido e robusto, tornando nettamente sopra i livelli pre-crisi. Nei mesi giugno-agosto 2021, le esportazioni a prezzi costanti hanno superato del 2,6% i livelli di fine 2019 (+7,3% le esportazioni in valore). Positivo soprattutto l’andamento dell’export di input intermedi e di beni d’investimento, mentre è ancora parziale il recupero per i beni di consumo. Tra i beni d’investimento la crescita è trainata soprattutto dalle apparecchiature elettriche, mentre il recupero per la meccanica strumentale non è ancora completo.
Il maggiore dinamismo della manifattura italiana rispetto a quella delle altre principali economie europee si è riflesso in un aumento della sua quota sul totale dell’export UE, che è cresciuta sia negli scambi intra-area sia in quelli verso il resto del mondo.
Sul fronte occupazionale, il rimbalzo della produzione industriale a partire dall’estate 2020 si è riflesso in un recupero significativo delle ore lavorate che, tuttavia, alla fine del secondo trimestre 2021 risultano ancora al di sotto dei livelli pre-pandemici (-4,2%). Nello stesso periodo, l’occupazione diretta del settore risulta invece diminuita di circa 42mila lavoratori al 2019 (-1,1%).
Per la seconda metà del 2021, le attese delle imprese manifatturiere sul fronte della domanda di lavoro appaiono in costante e significativo miglioramento, soprattutto per quanto riguarda le imprese del Nord (in particolare Nord-Est) e del Centro. Tale andamento si associa, tuttavia, all’aumento della quota di imprese che segnalano crescenti difficoltà nel reperimento della manodopera loro necessaria per il ciclo produttivo, in un contesto di aumento progressivo del grado di utilizzo degli impianti.
Nel 2020 vi è stato un massiccio ricorso ai prestiti bancari garantiti dallo stato da parte delle imprese italiane (126 miliardi di euro le richieste fino a dicembre, di cui 97 miliardi erogati, tramite il Fondo di garanzia per le pmi), che ha invertito la tendenza decennale alla riduzione del peso del debito bancario sul totale del passivo e ne ha aumentato corrispondentemente l’onere. Parallelamente, si è ridotto il peso della copertura finanziaria assicurata dal capitale di proprietà.
Alla disponibilità dei finanziamenti bancari si è sommato un ampio ricorso al mercato delle obbligazioni. Nel complesso, includendo anche gli altri debiti finanziari verso terzi, il nuovo debito netto contratto dalle imprese manifatturiere italiane nel 2020 è stato pari a 4,1 punti di fatturato, rispetto ad appena 0,3 nel 2019.
Un’analisi realizzata dal Centro Studi Confindustria in collaborazione con l’Istat mostra che il sistema manifatturiero italiano all’alba dello scoppio della pandemia mostrava un’alta propensione all’investimento in innovazione: delle quasi 69mila imprese con almeno 10 addetti censite nel 2019, i due terzi hanno dichiarato di aver investito in progetti di innovazione. A questa elevata propensione corrisponde però un grado di complessità delle strategie innovative (misurato come numero di leve d’investimento attivate contemporaneamente) relativamente basso, per effetto dei comportamenti osservati soprattutto tra le imprese di più piccola taglia. Nella maggioranza dei casi, l’innovazione nella manifattura italiana è passata attraverso un investimento in beni tangibili (70,6%), ma è stata alta anche la frequenza delle imprese innovatrici impegnate in attività di r&s (58,6%) e nell’acquisto di capacità di analisi dei dati (45,5%). Molto inferiore, invece, la presenza di attività di formazione del personale per i progetti innovativi (28,9%).
I risultati preliminari di un’analisi realizzata dal Centro Studi Confindustria in collaborazione con il gruppo di ricerca re4it, relativa ai processi di backshoring in corso nella manifattura, rivelano che il fenomeno del rientro in Italia di forniture precedentemente esternalizzate non è marginale. Tra i rispondenti che avevano in essere rapporti di fornitura estera, il 23% ha già avviato, negli ultimi cinque anni, processi totali o parziali di backshoring. I settori maggiormente attivi sono stati alimentari, tessile e altre industrie manifatturiere. Al primo posto tra le motivazioni addotte per spiegare il fenomeno compare la disponibilità di fornitori idonei in Italia (il che significa che la passata esternalizzazione non ha determinato la scomparsa di reti di fornitura nazionale nell’ambito in cui opera l’impresa) e la possibilità di abbattere i tempi di consegna (il che implica che il ricorso alla fornitura nazionale è rimasto efficiente sul piano operativo).