Ccnl: sono 935 e 4 su 10 sono firmati da sindacati “fantasma”. A rischio diritti, legalità e la sicurezza nei luoghi di lavoro
Su 935 Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) vigenti e depositati al CNEL entro il 31 dicembre scorso, 351 sono stati firmati da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali non riconosciute dallo stesso Consiglio Nazionale: praticamente 4 su 10, precisamente il 37,5 per cento del totale. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.
Non è il “far west”, ma poco ci manca
Intendiamoci, nessuno mette in discussione la libertà sindacale che, in un Paese democratico va sempre garantita. Tuttavia, non è un mistero che spesso sigle sindacali “fantasma” che non rappresentano nessuno, o quasi, sottoscrivono dei contratti di lavoro a livello nazionale che molti definiscono, correttamente, “pirata”. Sia chiaro: non siamo nel “far west”, ma in alcune filiere produttive poco ci manca. Sono accordi che spesso abbattono i diritti più elementari, indeboliscono la legalità, favoriscono la precarietà, minacciano la sicurezza nei luoghi di lavoro, comprimendo paurosamente i livelli salariali. Accordi fortemente al ribasso che creano concorrenza sleale delegittimando quelle organizzazioni che, invece, hanno una rappresentanza sindacale presente su tutto il territorio nazionale, fatta di storia, di cultura del lavoro e del fare impresa, di iscritti, di sedi in cui operano migliaia e migliaia di dipendenti che erogano servizi a milioni di imprese e milioni di lavoratori dipendenti.
Al CNEL il compito di “controllare” la regolarità dei contratti
In un momento in cui il mondo del lavoro sta vivendo delle tensioni sociali profondissime, secondo la CGIA è giunto il momento di rivedere il sistema della rappresentanza, consentendo alle organizzazioni datoriali e sindacali che sono riconosciute dal CNEL la titolarità di sottoscrivere accordi-contratti di lavoro a livello nazionale e locale, mentre a tutte le altre sigle che firmano un nuovo Ccnl, lo stesso dovrebbe essere “asseverato” da un’istituzione pubblica terza che, ad esempio, potrebbe essere proprio il CNEL. Senza questa “bollinatura”, il contratto non potrebbe essere applicato, fino al momento in cui le parti non apportano i correttivi richiesti. In alternativa, con una legge parlamentare si potrebbero stabilire i requisiti dimensionali minimi che le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese devono possedere per potersi definire tali, potendo così sottoscrivere su base nazionale un contratto collettivo di lavoro. Una soluzione, quest’ultima, più facile a dirsi che a farsi, visto che le parti sociali ne parlano da almeno 40 anni, ma risultati concreti ancora non se ne sono visti.
Con lo sblocco dei licenziamenti, da luglio a rischio 70 mila occupati. Causa Covid quasi 900mila hanno già perso il lavoro
Salvo cambiamenti dell’ultimo minuto, lo sblocco dei licenziamenti per le grandi imprese scatta dal prossimo 1° luglio. È molto difficile preventivare cosa succederà. Nella memoria sul decreto Sostegni bis presentato alla Commissione Bilancio della Camera l’8 giugno scorso, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) ha stimato che lo sblocco dei licenziamenti che prenderà avvio nei prossimi giorni porterà alla perdita 70mila posti di lavoro. Secondo il Presidente UPB, Giuseppe Pisauro, questi saranno concentrati prevalentemente nell’industria e “saranno plausibilmente scaglionati nel tempo man mano che si concretizzano le opportunità di turnover e di ricomposizione degli organici…”. Nel complesso, comunque, nonostante il blocco dei licenziamenti la diminuzione dell’occupazione è stata molto importante. Secondo l’Istat, infatti, tra il primo trimestre 2020 e lo stesso periodo di quest’anno il numero degli occupati è diminuito di 889 mila unità (-3,9 per cento): il crollo ha coinvolto i dipendenti (- 576 mila, -3,2 per cento), soprattutto se a termine e gli indipendenti (-313 mila, -6 per cento). Dei 2 milioni e 643mila disoccupati presenti attualmente nel Paese, un milione 364mila (pari al 51,6 per cento del totale) è senza lavoro da più di un anno.
I contratti “anomali” proliferano nell’edilizia e nei servizi
Come abbiamo segnalato in precedenza, dei 935 Ccnl presenti nel Paese 351 sono stati firmati da associazioni datoriali e sigle sindacali dei lavoratori dipendenti non iscritte al CNEL. Un’accozzaglia di organizzazioni improbabili che nella stragrande maggioranza dei casi non rappresentano quasi nessuno, ma consentono un’alternativa a quelle imprese e a quei lavoratori subordinati che vogliono fare dumping sociale, aggirando i contratti siglati dalle organizzazioni più rappresentative e diffuse su tutto il territorio nazionale. Tra tutti i settori la situazione più critica si riscontra nell’edilizia. A fronte di 74 Ccnl depositati al CNEL, 37 (pari al 50 per cento del totale) sono stati sottoscritti da organizzazioni non aderenti alla struttura di viale Lubin. Ricordiamo, tra le altre cose, che l’attività nei cantieri è la più a rischio per numero di infortuni e decessi nei luoghi di lavoro. Altrettanto “anomala” è la situazione che si registra nel commercio/artigianato/turismo. Su 257 Ccnl vigenti, 121 (pari al 47,1 per cento del totale) sono stati firmati da sigle “fittizie”. Tra le imprese di pulizia e le multiservizi, dei 50 contratti vigenti 23 (pari al 46 per cento del totale) sono stati sottoscritti da sigle pressoché “sconosciute”.
Salario minimo per legge? Non serve, c’è già
Anche nell’artigianato che presenta i livelli retributivi tra i più bassi fra tutti i settori economici presenti nel Paese, già oggi i principali contratti nazionali di lavoro presentano delle soglie minime orarie lorde complessive superiori a 9 euro. Livello, quest’ultimo, che è stato chiesto per legge da alcune forze politiche di governo. Tuttavia, la CGIA tiene a precisare che è molto riduttivo soffermarsi esclusivamente sulla retribuzione oraria lorda. Quando le parti sociali rinnovano un contratto di lavoro, nello stabilire gli aspetti strettamente retributivi si tengono in considerazione anche altri istituti che non hanno un impatto diretto sulla busta paga, ma sono altrettanto importanti, poiché vanno a comporre il cosiddetto salario differito. Ci riferiamo alle festività, ai permessi, alle malattie, alla maternità, alla formazione, etc. Se, inoltre, teniamo conto anche degli straordinari, del Tfr, della tredicesima/quattordicesima mensilità e, ove esistono, del welfare aziendale e dei contratti integrativi territoriali, già oggi il salario minimo orario dei lavoratori interessati dai contratti collettivi nazionali è nettamente superiore ai 9 euro lordi. Altra cosa, invece, è dire: “Eliminiamo lo sfruttamento economico colpendo chi firma accordi al massimo ribasso”, ovvero, gli accordi sottoscritti dalle sigle “fittizie” richiamate in precedenza. Bene, se l’obbiettivo è questo, la soluzione va ricercata “emarginando” queste realtà, sottoponendo i Ccnl firmati da questi ultimi all’“attenzione” da parte di un soggetto pubblico terzo, come il CNEL.